Renata Sarfati lavora presso uno studio di traduzioni a Milano, città in cui vive.

La mia famiglia è originaria dell’impero turco; entrambi i miei genitori infatti sono nati in Turchia; il ramo paterno, poi, è di origine macedone. Il nonno paterno era un funzionario delle poste dell’impero turco per cui tutti i suoi figli nacquero in città diverse. Mio padre a diciotto anni emigrò, dapprima in Francia, dove già si trovava uno dei suoi fratelli, per poi arrivare a Milano, dove conobbe mia madre. Mia madre, invece, era arrivata dalla Turchia a dodici anni, con i suoi genitori, stabilendosi a Bologna e poi a Milano.
La mia è sempre stata una famiglia cosmopolita, forse perché un po’ sparsa per tutta l’Europa, e tuttavia molto legata alla cultura e alla tradizione ebraica. Sia mio padre che mia madre però erano assolutamente atei e quindi io non ho ricevuto una formazione religiosa.

Le nostre vicissitudini iniziarono nel ’38 quando, a causa delle leggi razziali, fummo costretti a lasciare l’Italia: mio padre, infatti, in quanto straniero non poteva più rimanere né lavorare (faceva il rappresentante per una società di seterie di Como). In un primo momento andammo in Jugoslavia, a Belgrado. Non fu un periodo facile: nel ’40 la città fu occupata dai tedeschi e ci fu uno spaventoso bombardamento, arrivato senza preavviso, che io ricordo ancora; per anni è stato un incubo ricorrente: il rifugio, le fiamme, la paura… Presero anche tutti gli ebrei. Fortunatamente noi non eravamo conosciuti; non eravamo iscritti da nessuna parte, e poi mio padre parlava bene il tedesco, perché aveva frequentato la scuola tedesca.
Così rimanemmo un po’ sotto l’occupazione tedesca fino a che decidemmo di fuggire in Macedonia, a Skopje, dove mio padre aveva dei parenti. Lì fummo aiutati dal console italiano a Belgrado, una persona veramente straordinaria che aiutò molti ebrei a fuggire; il console ci fece ottenere dei documenti falsi, ricordo che mio padre diventò Salfati e mia madre da Cohen divenne Collini; poi mise sopra ai documenti un sacco di timbri per dargli un po’ di importanza, perché i tedeschi erano molto sensibili a queste cose burocratiche. Così, in modo abbastanza rocambolesco, dalla Macedonia riuscimmo a passare in Albania, nonostante le frontiere fossero chiuse e controllatissime.
In Albania c’erano gli italiani, così io potei frequentare una scuola di suore italiane. Andare in quella scuola mi piaceva moltissimo, c’erano i fiori, il mese di Maria, volevo persino fare la comunione... Certo, mi rendevo conto che c’era qualcosa di strano ma non riuscivo a capire bene cosa fosse. Alle mie richieste poi mia madre rispondeva sempre: “Bisogna aspettare papà”.
Nel frattempo infatti mio padre era tornato in Italia, rimanendo bloccato dall’armistizio. Mia madre si era così trovata in Albania da sola con noi figli (ci restammo per quasi tre anni). Pensandoci oggi devo dire che fu molto coraggiosa. Allora la preoccupazione principale era che nessuno scoprisse che eravamo ebrei. Anche per questo, di fronte alle nostre domande, si barcamenava sempre dicendo che doveva aspettare il ritorno di nostro padre. In seguito abbiamo scoperto che in realtà lo sapevano già tutti.

Il viaggio di mio padre dall’Albania all’Italia era stato davvero avventuroso. Era voluto tornare in Italia, con i documenti falsi, per poter lavorare e mantenerci, perché la filiale albanese delle seterie intanto aveva chiuso. Così si imbarcò su una nave italiana che però fu silurata e naufragò sulle coste jugoslave. Lui fortunatamente venne salvato da alcuni pescatori. Riuscì così a raggiungere Fiume, dove però rimase di nuovo bloccato.
Mio padre era anche un po’ pazzerello: a Fiume aveva scelto di alloggiare nell’albergo che ospitava il comando tedesco; sosteneva fosse “il modo migliore per non farsi notare”, perché parlava bene tedesco. Certo, pensandoci adesso, avrà suscitato molti sospetti: un signore solo in un albergo di Fiume, che non si capiva bene cosa ci facesse. Comunque rimase a Fiume per un paio di mesi prima di riuscire a raggiungere Milano, dove rimase sempre nascosto.
In quel periodo di separazione, mia madre dall’Albania gli aveva scritto una lettera -l’unico tentativo di comunicazione in quei tre anni di distacco- e l’aveva affidata a un maresciallo dei carabinieri che stava tornando in Italia; come indirizzo aveva messo quello di una sua amica, ma quest’ultima era sfollata così la lettera era tornata indietro al mares ...[continua]

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