Angelo Stella insegna Storia della lingua italiana all’Università di Pavia. Nell’intervista si fa riferimento al disegno di legge 993 sull’istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana, presentato nel 2001 e ora in discussione alla prima Commissione affari costituzionali del Senato.

Cosa s’intende per “politica linguistica”?
Ci sono due tipi di politica linguistica, da un lato quella dei conquistatori, i quali imponendo il loro dominio impongono anche una lingua che, molto spesso, ha una superiorità culturale: Alessandro Magno ha imposto il greco nell’Europa Orientale, i Romani hanno imposto il latino a una vasta area europea. Del resto basta pensare alla colonizzazione degli inglesi o, in misura minore, dei francesi e prima degli spagnoli: tutti hanno imposto la lingua del più forte e, per un assurdo, l’antico sopruso oggi si rivela un vantaggio, noi italiani infatti siamo costretti a studiare l’inglese come lingua sovranazionale, mentre gli indiani, i canadesi o i sudafricani l’hanno imparato per ragioni storiche. C’è poi la politica linguistica nazionale, ad esempio quella del regime fascista, che intendeva la lingua come identità linguistica di una nazione (Manzoni aveva scritto “una d’arme, di lingua, d’altare”) o l’attuale disegno di legge per l’istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana, che a mio parere è in continuità con quella linea. Io invece penso che il modo giusto d’impostare il problema sia di considerare la lingua nella sua dimensione sociale. La lingua è innanzitutto un problema sociale, proprio come sostenevano gli Illuministi, anche se la loro politica linguistica fu per certi aspetti oppressiva. Lo stesso Manzoni aveva un obiettivo sociale quando promosse la diffusione di un modello unico di lingua e per questo dichiarò guerra ai dialetti e sostenne la necessità di affidare l’insegnamento esclusivamente a docenti fiorentini. Infatti era convinto che con la realizzazione dell’unità linguistica nazionale tutti i parlanti avrebbero portato nella lingua una diversa ricchezza di competenze spirituali e di cultura materiale; se cioè il contadino calabrese avesse imparato bene l’italiano lo avrebbe arricchito della propria cultura dialettale. Manzoni quindi non vedeva l’uso di una lingua unica come soppressione dei dialetti o delle lingue minoritarie, ma come partecipazione di tutti i membri della società alla costruzione di una lingua comune.
Può approfondire la definizione della lingua come patrimonio sociale?
Se io ho una casa e siamo in cinque devo avere cinque stanze per poterne dare una ciascuno, tutti i beni materiali infatti si dividono in base al numero degli utenti. La cultura invece è l’unico bene che si può condividere senza privarne nessuno; se leggo la Divina Commedia non tolgo agli altri la possibilità di fare altrettanto; allo stesso modo la lingua è un bene che può essere partecipato da tutti senza toglierlo a nessuno. Ma è un bene sociale anche perché ogni individuo ha una sua specifica ricchezza linguistica; mio padre, che era un contadino dialettofono, mi sapeva dire come si chiama quel fermo che si metteva al carro o le cinture di pelle che si mettono sulle corna dei buoi e delle mucche per accoppiarle. Chi può portare questa ricchezza se non il contadino? Tutti hanno qualche gemma preziosa e possono scambiarla. Il vero problema è che la società è uguale quando tutti sono ricchi, perché se uno può uccidermi con una battuta vuol dire che è più ricco di me, così come se può impedirmi di parlare vuol dire che è più forte di me, che mi toglie il diritto di usare la lingua allo stesso modo in cui la usa lui. Quando il medico mi fa una diagnosi infausta non deve spiegarmela, io devo essere in grado di capire le sue parole; se non vuol farsi sentire va da un’altra parte, ma se in mia presenza parla al suo collega in termini che io non capisco mi offende, perché mi colloca in uno stato sociale subordinato. Come don Abbondio quando citava gli impedimenti a Renzo in latino: devi credere non alle parole che dico, che tu non capisci, ma alla mia autorità che dice queste parole. Se noi partiamo dalla lingua ci abituiamo veramente alla democrazia, perché dobbiamo chiederci se l’interlocutore ha davvero capito ciò che vogliamo dire e se noi abbiamo ascoltato davvero tutto quello che lui ha detto.
Potremmo intenderci usando i numeri, cosa c’è di più razionale? La lingua invece risente della sua storia ed è sociale anche in questo senso, perché ...[continua]

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