Roberto Festa, giornalista di Radio Popolare, recentemente ha pubblicato Il mondo da Sheinkin Street. Reportage sulle libertà civili, Ed.Eleuthera.

Il tuo libro s’intitola Il mondo da Sheinkin street. Cosa rappresenta questo luogo?
Sheinkin street è una via di Tel Aviv e Tel Aviv è una città molto strana, che dà l’impressione di non trovarsi neppure in Israele, perché è completamente diversa da Gerusalemme o dai Territori, essendo in gran parte ebraica, molto occidentale anche come sistema di vita, per tanti aspetti simile a New York. Fu costruita negli anni ‘20-‘30 da architetti arrivati soprattutto dalla Germania, quindi influenzati dal Bauhaus, che l’hanno disseminata di piccoli edifici a due o tre piani, razionali, bianchi, i più vecchi spesso sono di legno. Si tratta di una città costruita da immigrati per altri immigrati, sorta senza un vero piano regolatore, molto brutta, ma estremamente vitale. Sheinkin è una vecchia via di case basse, al centro di un quartiere che è diventato un po’ l’equivalente del Village degli Stati Uniti, una zona piena di esercizi commerciali, spesso molto vecchi; c’è un gran numero di vecchi ortopedici ad esempio oppure negozi di vintage o di abbigliamento d’un certo tipo, poi gente che fa tatuaggi, una quantità di bar e caffè dove si servono piatti europei, specie dell’Europa dell’est, cinema, teatri, negozi di musica jazz. In questo contesto convivono anime totalmente diverse: giovani pacifisti liberal e radicali, prostitute russe arrivate di recente, ebrei ortodossi, che vivono lì per la vicinanza di alcune sinagoghe, molti gay e lesbiche, tanti arabi venuti per studiare. Per me che vado spesso in Israele e ho parenti che ci vivono, Sheinkin è una specie di oasi, è quello che mi sarebbe piaciuto che fosse Israele, uno stato con una forte componente multietnica e senza il senso di un’identità esclusiva. Già nell’architettura e nell’urbanistica del quartiere si può constatare la mancanza di un’identità precisa: c’è dentro di tutto, dall’edificio stile Bauhaus alla costruzione orientaleggiante, alberghi moderni sono cresciuti come funghi accanto alle vecchie sinagoghe; su tutto aleggia un senso d’indefinitezza, che è frutto delle tante identità che lì si raccolgono perdendo, forse drammaticamente, ognuna una loro parte. Come ho potuto constatare vivendo negli Stati Uniti, non è vero che lì le diverse comunità vivono felici: qualsiasi immigrato che viva una situazione di scambio in qualsiasi posto del mondo perde qualcosa, è un dato di fatto, ma nel contempo conquista qualcos’altro o comunque trova nuovi intrecci vitali. L’importante è comprendere che il concetto d’identità non può essere monolitico ed esclusivo; se lo diventa è un dramma. Con questo non voglio dire che in situazioni come quella di Sheinkin le tensioni non esistano, ma vengono contenute e riassorbite dal senso che comunque si deve vivere lì e che quindi ognuno deve perdere qualcosa. Per questo ho scelto questo posto come prospettiva da cui guardare gli altri luoghi di cui parlo nel libro; tutto quello che ho visto ho cercato di osservarlo con lo spirito di quella comunità e con la coscienza che le identità totalitarie non funzionano.
Nel libro i reportage da Israele sono la conclusione di un percorso che parte dagli Stati Uniti e passa per l’Olanda, perché hai scelto questi paesi?
Perché molti in Occidente si sentono minacciati al punto da essere disposti a sacrificare delle libertà civili in nome di un indistinto bisogno di sicurezza e in questi paesi il fenomeno è particolarmente evidente nella sua complessità e permette di constatare come la restrizione delle libertà civili sia un processo in atto da molto prima dell’11 settembre. E’ da molto tempo, per esempio, che Fbi e Cia cercano di ricreare un sistema di controllo poliziesco sui cittadini analogo al Cointelpro, il programma con cui l’Fbi di Hoover invase la privacy degli americani e che fu dichiarato anticostituzionale nel ‘75.
Ora ci stanno riuscendo attraverso il Total Information Awareness lanciato dall’amministrazione Bush, un sistema di schedatura dei singoli cittadini, oppure il Tips, il Terrorism Information and Prevention System, che dovrebbe reclutare un milione tra postini, tecnici via cavo, lettori dei contatori e altri lavoratori con accesso alle case private, o ancora il sistema di riconoscimento facciale installato negli aeroporti; il pretesto per tutto questo è stato l’11 settembre. A novembre del 2002 nove americani ...[continua]

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