Tsultrim Gyatso, 30 anni, è nato a Choni, nel Tibet nord-orientale, dove tuttora vivono i suoi genitori, due sorelle e un fratello, che non vede da circa dodici anni. Ha lasciato il Tibet nel 1988 senza alcuna possibilità di ritorno, tantomeno di mantenere alcun contatto con i propri cari. Oggi è rappresentante del partito democratico tibetano a Dharmsala, in India.

Sono nato nel nordest del Tibet, in un luogo chiamato Choni, ma non essendoci alcuna scuola in quella piccola regione, i miei genitori, che hanno sempre considerato la mia educazione molto importante, mi hanno mandato a studiare in Cina. Ho così svolto tutti i miei studi in Cina, dalle elementari fino al college. Allora, al college non c’era solo l’insegnamento del cinese, si poteva studiare anche il tibetano, per cui ho studiato la storia e la cultura tibetana, la geografia e in particolare la lingua. Finita l’università, sono tornato in Tibet, dove ho insegnato in una scuola superiore e ho fatto dei corsi per adulti privi di istruzione, giovani tra i 25 e i 27 anni.
Tornato in Tibet, dopo qualche tempo, ho ricevuto alcune lettere da mio fratello, che è un uomo d’affari e opera a Lhasa, nel centro del Tibet, a sette giorni di viaggio in pullman dal luogo dove insegnavo.
Le lettere erano state mandate a lui dall’India, dal governo tibetano in esilio. Mio fratello mi ha chiesto di leggerle e di cercare di fare qualcosa. Ho subito capito che si trattava di documenti molto importanti perché contenevano tutte avvertimenti da parte del Dalai Lama per i tibetani affinché conservassero e coltivassero la cultura tibetana, e in particolare curassero l’educazione delle nuove generazioni.
Così ho lasciato il mio lavoro e mi sono recato a Lhasa per incontrare mio fratello. In quel periodo ho incontrato molta gente che era stata in India, e anche loro mi hanno dato molte e nuove informazioni sul Dalai Lama, sul governo in esilio, su come si sono organizzati anche sul piano internazionale.
E’ iniziata così la mia iniziazione, perché io fino allora non ero al corrente della situazione dei tibetani e del Tibet, non avevo capito, non sapevo.
Ho subito cominciato a raccogliere tutta la documentazione possibile e mi sono messo in contatto con l’ufficio tibetano in India. Loro mi hanno dato tutti i recapiti, i numeri di fax e di telefono delle varie organizzazioni.
Questo ha reso più semplice ricevere ulteriori informazioni direttamente dall’India.
Ho raccolto altre notizie e sono tornato nel nordest del Tibet, cercando subito di raccontare alla gente della situazione di questo popolo in esilio, anche per capire come agire in quell’area.

E’ accaduto il I° agosto del 1987: ero in un campo nomadi e stavo cercando di raccontare tutte queste storie sul Dalai Lama, perché in Tibet c’è il silenzio totale, i cinesi infatti mantengono un controllo molto serrato, per cui nessuno sa niente; anche appendere le foto del Dalai Lama da qualche parte -anche molto in alto- per venerarlo, è vietato. Insomma ho cercato di far loro conoscere queste storie e la gente era molto eccitata, molti piangevano e chiedevano che gli si portassero altre foto...
Premetto che, purtroppo, ci sono molte spie anche all’interno della comunità tibetana. C’è gente disperata, finita nella spirale della droga, che ha bisogno di soldi e che quindi vende informazioni.
Ecco, credo che ci fosse qualcuno di loro in quel campo e che abbia poi riferito quanto visto alla polizia cinese, appunto perché così facendo avrebbe ricevuto dei soldi. In conclusione, sono stato catturato e imprigionato in una di queste tende del campo. Dopodiché mi hanno fatto salire in una macchina e mi hanno portato a circa 200 km. Per due settimane sono stato chiuso in una stanza buia. Infine uno zio, che è un uomo relativamente di potere nel governo cinese, ha chiesto alla polizia cinese la mia liberazione. Credo abbia anche pagato per questo rilascio.
Grazie al suo intervento, sono stato liberato, ma solo sei mesi dopo. La maggior parte del tempo l’ho trascorsa sottoposto a interrogatori e domande. Ecco, vedi le mie mani, tutte queste ferite, anche in testa, mi sono state provocate in quei sei mesi; mi hanno torturato, mi hanno messo ai lavori forzati. Insomma non è stato un periodo molto facile.
Dopo la liberazione sono tornato da mia madre, dove sono rimasto per circa un mese. Certo, ero libero in quel momento, ma ogni tanto loro arrivavano, un gruppo di poliziotti, gente del governo, e facevano un sacco ...[continua]

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