Michele Gallucci, Unità di Cure Palliative e Terapia del Dolore dell’Ospedale di Desio, è direttore della Scuola Italiana di Medicina e Cure Palliative di Milano.

Com’è nata la scuola di Cure Palliative?
In Italia, soprattutto in quest’ultimo anno, l’attenzione per le cure palliative è aumentata enormemente. In particolare, è stata istituita una commissione nazionale presso il Ministero, e sono stati stanziati dei fondi, 400 miliardi, perché le regioni stanno facendo delle leggi regionali per regolare le cure palliative. In particolare, sono stati istituiti dei servizi di cure palliative a livello nazionale, proprio per legge; in Lombardia ce n’è uno, in Emilia Romagna ce n’è un altro. Di conseguenza ora c’è bisogno di tanti operatori.
Qual è il problema? Che tali operatori non hanno mai sentito parlare di cure palliative all’università, dove invece si continua a concentrare tutte le attenzioni su quello che è l’obiettivo fondamentale della medicina: curare la malattia. Allo stato attuale non è prevista neanche un’ora di lezione per spiegare ai futuri medici e infermieri che esiste anche la possibilità che la gente muoia e che deve esserci una competenza, basata sulla conoscenza del processo, dei meccanismi fisiologici del morire, per assistere e accompagnare a una morte naturale, accettata. C’è un meccanismo perverso per cui tutte le volte che una persona comincia a morire, scatta la reazione per salvargli la vita. Se uno sta morendo, gli si fa il massaggio cardiaco; se in questo momento, in questo ospedale, un malato senza speranza comincia a morire, per un infarto o un’insufficienza renale, nessuno si pone il problema che questa possa essere una morte naturale. Cosa si fa? Si chiama il rianimatore. Quindi non esiste mai il momento in cui uno muore.
Ora, se anche l’università cominciasse da domani a tenere corsi di cure palliative, prima di avere un numero di persone competenti ci vorrebbero non meno di 10 anni. Quindi ci sarà comunque una fase transitoria, durante la quale in Italia solo di cancro moriranno un milione e mezzo di malati (150 mila all’anno per 10 anni), più i malati di altre patologie che, fra l’altro, stanno aumentando, come l’Alzheimer, le malattie neurologiche.
Non possiamo aspettare, perché le sofferenze di queste persone sono certe, allora ci vuole una strategia di formazione rapida, non tanto di nuovi operatori, ma di quelli che già adesso sono a contatto con questi malati e non sanno come comportarsi. Si tratta di formare coloro che già sono nella vita professionale: medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, volontari, fisioterapisti. La nostra scuola, la Scuola Italiana di medicina palliativa (Simpa), è nata per questo. Ma siamo piccoli, facciamo un corso per 43 medici e infermieri ogni anno. E’ un laboratorio didattico, noi elaboriamo casi clinici, metodi didattici nuovi, siamo un po’ il prototipo, per cui non possiamo andare molto oltre, non possiamo pensare di programmare una formazione a tappeto in tutta Italia.
Fra l’altro, oltre alla formazione di operatori specifici, sarebbe necessario una formazione di base in cui tutti gli operatori abbiano un minimo di informazione su come si assiste il morente. E infine ci vorrebbe una scuola di specialità per le cure palliative, come esiste all’estero, perché ci sarà bisogno di professionisti in grado di dirigere servizi di cure palliative, a partire dalla novità dell’hospice. L’hospice richiede capacità di gestire le persone, le dinamiche di gruppo, il budget, la raccolta fondi, di intrattenere le relazioni con le organizzazioni non-profit, private, di gestire un’équipe, di parlare in pubblico, di organizzare un convegno, tutte competenze che non si insegnano all’università e neanche nelle scuole di specialità. Ecco, questo è il panorama generale.
Le cure palliative si collocano in una specie di terreno di nessuno, fra medicina e morale. Sta qui la difficoltà?
Non c’è dubbio che il problema della fine della vita, cioè il fatto che ci siano delle persone che comunque sono destinate a morire, i cosiddetti malati terminali, si porta dietro una serie di decisioni che non sono solo cliniche, ma di tipo morale. Se lei realizza la migliore decisione clinica rispetto al problema di un malato destinato a morire, e quindi opera l’intervento migliore dal punto di vista clinico, può essere che non solo non gli faccia un favore, ma gli procuri un danno, quello che si chiama accanimento terapeutico.
Oppure può succedere ...[continua]

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