Giancarlo Gaeta insegna Storia del cristianesimo antico e Storia delle religioni all’Università di Firenze. Per l’editore Adelphi ha curato l’edizione italiana dei Quaderni di Simone Weil. Per e/o ha pubblicato recentemente Religione del nostro tempo, una raccolta di saggi su Walter Benjamin, Simone Weil, Etti Hillesum, Dietrich Bonhoeffer.

Simone Weil, di fronte al rischio di una guerra mondiale, sostenne molto fermamente le ragioni della pace, anche con argomenti piuttosto impressionanti. Addirittura, per giustificare la possibilità di cedere qualcosa a Hitler pur di salvaguardare la pace in Europa, dice più o meno così: "Una volta che i Sudeti saranno tedeschi e la Cecoslovacchia diventerà un satellite della Germania, cosa succederà mai? La messa fuori legge del partito comunista e l’interdizione agli ebrei dell’accesso a qualche funzione pubblica. Ingiustizia per ingiustizia...". Puoi spiegarci quale fu l’itinerario che portò la Weil dalla Spagna al pacifismo e poi ancora alla lotta contro Hitler?
Naturalmente dobbiamo calarci nel momento storico. Per capire il suo atteggiamento nei riguardi della guerra, mi sembra importante cogliere la sua visione complessiva della situazione europea. La guerra per lei avrebbe voluto dire innanzitutto una disfatta definitiva del movimento operaio, di qualunque possibilità, insomma, di modificare, non dico in modo rivoluzionario, ma anche per via riformistica, i rapporti di forza all’interno del capitale, del mondo del lavoro. Con la guerra gli stati si sarebbero militarizzati, l’economia sarebbe diventata bellica, con il conseguente predominio assoluto dei poteri statuali, economici e militari.
Poi, guerra voleva anche dire guerra totale, ossia sulla totalità del territorio europeo. A torto o a ragione, il governo Blum, che lei infatti aveva appoggiato, si era mosso nel timore che l’intervento delle democrazie e della Francia nella guerra civile spagnola, dove il fascismo italiano e il nazismo tedesco erano apertamente coinvolti, avrebbe inevitabilmente scatenato una guerra in Europa.
Il terzo motivo nasceva da un calcolo politico: la speranza che sussistessero ancora in Germania forze politiche ed economiche, anche di destra, disposte a creare un’opposizione reale a Hitler. Si trattava, quindi, di tener presente la possibilità di una dinamica interna alla Germania, tanto più che Hitler, quando lei scriveva quelle cose, aveva preso il potere da pochi anni. L’idea che il potere hitleriano non fosse così totalmente assestato non era quindi del tutto peregrina. La guerra, invece, avrebbe dato tutto il potere a Hitler, e allora non ci sarebbe stato più scampo.
E’ in questo quadro che Simone Weil sembra assumere una posizione fortemente pacifista, nel senso di dire: "Lasciamolo fare, lasciamogli prendere quel che riesce a prendere e contemporaneamente cerchiamo di renderci conto di che cosa sta succedendo, quali sono le forze in gioco".
E poi bisogna tener presente che la Weil era un’intellettuale cresciuta all’interno del movimento operaio, con una visione internazionalistica, con l’idea fondamentale del superamento dell’oppressione sociale per tutti, quindi al di là dei confini, al di là delle ragioni di questo o di quell’altro stato.
Simone Weil ha una visione fortissimamente antistatuale: c’è una quantità di suoi scritti in cui mostra che per lei il vero ostacolo, il centro dell’oppressione, è la concezione moderna dello Stato, lo Stato nato in Francia, quello di Luigi XIV, di Richelieu, di Napoleone, lo stato centralizzato. Quindi, in questo senso, le differenze tra lo Stato tedesco in mano a Hitler, lo Stato sovietico in mano a Stalin e gli stati democratici non hanno una differenza qualitativa. Sono differenze per quel che riguarda le libertà, però, se ci si mette dal punto di vista dell’operaio in fabbrica, le differenze non sono sostanziali: le condizioni reali in cui si lavora, si vive, il grado di oppressione sopportata da un operaio francese, tedesco, russo, ai suoi occhi non faceva questa gran differenza. Quindi, in questo senso si può capire perché la guerra potesse apparirle come la catastrofe totale, la fine di ogni speranza. Naturalmente, stiamo parlando di un momento antecedente alla guerra stessa.
Non era comunque una pacifista per principio...
Parlare per lei di pacifismo in senso stretto, così come l’intendiamo oggi, non ha molto senso. Lei fece propria la causa pacifista dell’epoca. Era fermamente contraria alla guerra, però non e ...[continua]

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