Salvo, 44 anni, vive a Palermo ed è lavoratore dipendente.

Cosa diresti di te per presentarti molto sinteticamente?
Sono sposato da quindici anni, ho tre figli. Adesso sono un uomo come gli altri, che vive onestamente, felice della sua famiglia e del suo lavoro.
E di tuo padre?
Che si chiamava Giuseppe; gli amici lo chiamavano Pinuzzu o Pino o ancora Don Pino. I suoi “amici” erano per lo più mafiosi; lui stesso era un mafioso, ma non un semplice “soldato”, era uno che tra gli anni Cinquanta e Settanta aveva un ruolo di rispetto, di predominanza in un certo territorio del palermitano.
Non hai paura a raccontare la tua storia?
Ho sempre avuto paura di raccontare chi ero e da dove provenivo. Le vicende che sto per raccontare appartengono ormai al passato, eppure ancora oggi ho paura. La mia paura risale all’infanzia… Anche se non sono mai stato “uomo d’onore”, voglio rimanere anonimo perché rischio di essere considerato al pari di un pentito in quanto motivo di vergogna per una famiglia che è quel che è.
In quale contesto ambientale si è sviluppata la tua vicenda?
Sono nato in una piccolissima borgata chiusa ai confini di una città informe. Un quartiere fatto soprattutto di modestissima edilizia popolare, circondata da agrumeti estesi a perdita d’occhio. Questi terreni erano naturalmente tutti in mano a grossi proprietari, probabilmente mafiosi loro stessi, o comunque facenti parte di quella nobiltà decaduta che si serviva dei mafiosi in un doppio intreccio finalizzato al controllo della zona. Questi proprietari, per tenere congelate e comunque unite grandi estensioni di terreno, avevano storicamente trovato dei “fiduciari” che, a costo zero, gliele custodivano in cambio dell’usufrutto (gabelloti si chiamavano; avere dei terreni in gabella significava di fatto essere uno che conta). Ma quando, a partire dai primissimi anni Sessanta, la speculazione edilizia in grande stile arrivò anche là, le cose mutarono radicalmente. Il valore delle terre salì, i costi lievitarono e ciò scatenò quella febbre dell’arricchimento che portò inevitabilmente alla guerra di mafia che insanguinò le strade di Palermo per molto tempo. Fu allora che cominciarono i guai in famiglia. Bastarono pochi anni perché vedessimo radere quasi tutto il verde e proliferare orrendi palazzi alti da cinque a dodici piani. Verso la fine degli anni Settanta il quartiere aveva assunto più o meno la fisionomia attuale, restando comunque una zona assai poco nobile di Palermo, quasi del tutto priva di servizi commerciali e sociali. Un quartiere abbandonato a se stesso, o meglio alla barbarie. Oggi in molti punti è profondamente degradato, nei suoi tessuti sociali ed economici, impregnato di mafiosità come prima e più di prima.
Perché parli di guai in famiglia piuttosto che di arricchimento?
Mio padre solo all’inizio fu complice di questo scempio, ma la sua “carriera” fu più breve di quella di tanti altri mafiosi e fiancheggiatori più agguerriti e meglio sostenuti: dapprima scontò diversi anni di soggiorno obbligato al Nord, poi, a seguito delle accuse di alcuni pentiti, fu in carcere a Palermo per tre anni e - uscitone - rimase vittima dopo qualche tempo della “lupara bianca”. Una sera non fece ritorno a casa e non ne sapemmo più nulla fino a quando, in tempi più recenti, dei pentiti hanno rivelato come e perché è stato ucciso. Fu strangolato, il suo corpo legato e gettato in mare con una zavorra ai piedi. Per il controllo del territorio, rimase vittima di una guerra che non conosce certo onore e lealtà. Gli “amici”, che lo avevano sempre protetto e ‘spupeggiato’, furono i suoi stessi boia. I soldi che aveva accumulato finirono bruciati in spese legali e restituzione a creditori. Alla fine ha pagato con la sua stessa vita i propri errori, esponendo per lunghi anni anche noi familiari a gravi rischi e disagi, ed a ferite che assai difficilmente si possono rimarginare.
Che opinione, che ricordo intimo ti è rimasto di tuo padre? Com’era veramente Don Pino?
Almeno a partire dal periodo in cui i miei ricordi diventano nitidi, parliamo della fine anni Cinquanta, papà aveva una certa agiatezza economica, vestiva bene, e sembrava effettivamente stimato piuttosto che temuto da tutti. In casa poi era un angelo: ci voleva molto bene, guardava noi figli quasi con ammirazione, gli occhi gli brillavano. Col suo sguardo ci comunicava il suo più profondo sentimento di paternità: in silenzio ci diceva che noi eravamo il suo bene più grande. Mio padr ...[continua]

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