Paola Tabet è docente di antropologia all’Università della Calabria. Recentemente ha pubblicato per Einaudi La pelle giusta, 1997.

Come è nata l’idea di svolgere una ricerca sul razzismo avendo come interlocutori i bambini?
L’indagine ha una nascita duplice, nel senso che l’idea specifica mi è venuta durante un corso di etnologia che stavo tenendo all’Università di Siena nel 1989-1990 su schiavitù, sviluppo industriale e colonialismo. Allora, più che l’impreparazione pressoché assoluta e generale degli studenti su questi temi, mi aveva colpito la loro inconsapevole immersione nell’ideologia della razza. Ho sentito così la necessità di fare una ricerca che avesse come centro le idee correnti e diffuse che stanno alla base del razzismo. Per caso, poi, era capitato che tra gli studenti più interessati e disponibili a mettere in discussione i propri presupposti ci fossero degli insegnanti elementari. Così proprio con loro è cominciato un lavoro di indagine sulla riproduzione del razzismo nei bambini. Si trattava di vedere cosa significava e cosa produceva a quel livello l’idea di razza, in particolare il vivere in una società dove si crede che vi sia una differenza di essenza tra le persone e i gruppi, dove insomma comunemente si pensa che l’umanità sia divisa in gruppi naturali detti "razze".
La ricerca abbozzata in quel corso si è successivamente costruita e precisata e poi estesa in tutta Italia, coinvolgendo centinaia d’insegnanti della scuola elementare e media, e toccando quasi tutte le regioni.
Parlavo di nascita duplice, perché l’altro momento importante, il retroterra direi della ricerca, che definisce anche il punto di vista e l’ottica da cui come studiosa e come antropologa affronto la ricerca, è che il razzismo per me non è un fatto esterno o astratto, né solo un interesse teorico o anche teorico-politico, bensì un’esperienza reale, che entra direttamente nella mia vita. E ci entra insieme a una educazione antirazzista e internazionalista che devo ai miei genitori, antifascisti e comunisti militanti dal ’39. I miei genitori erano ebrei, con le leggi razziali del ’38 sono dovuti emigrare, hanno perso il lavoro, mia madre che insegnava non ha più potuto farlo, lo stesso mio padre. E, con due figli piccolissimi e un terzo in arrivo, sono emigrati in America dove sono stati costretti a fare lavori di tutti i tipi. In quegli anni abbiamo abitato a New York e lì, più che forme di antisemitismo, io da bambina ho conosciuto forme di razzismo contro i neri. Piccoli fatti, ma nel senso che si verificavano tra ragazzini, non certo per il disagio e la sofferenza provocati.
Questo è un lato della mia esperienza. L’altro, più importante viene dal fatto che il padre dei miei figli è del Senegal, per cui oltre 25 anni fa, quando ancora in Italia non si parlava di razzismo -ancora 10 anni fa sembrava una cosa strana quando ne parlavo- e i miei figli erano piccoli, ho cominciato a conoscere e ad acquistare una consapevolezza delle manifestazioni di razzismo: quelle gravi, ma anche quelle minime, quotidiane, che possono risultare impercettibili per chi non le vive tutti i giorni, a volte semplici sfumature, ma quanto pesanti!
Per parlare di razzismo non occorre pensare a fatti eclatanti, spesso sono gli episodi più banali e ordinari a risultare estremamente indicativi dell’atmosfera generale. Nelle mie ricerche non ho mai cercato episodi "forti", perché è vero che il razzismo è violenza, ma è soprattutto il suo diventare un sistema percettivo, un modo di vedere la realtà che deve farci riflettere. La violenza è come l’esplosione di un vulcano, ma non vi è esplosione senza magma sotterraneo.
Quindi la ricerca parte da una doppia base, che è di interesse teorico ma anche di esperienza personale, anche pesante. Ed è un’ottica specifica, è un po’ come parlare di questa società in cui ci sono rapporti di potere tra i sessi, dalla posizione dell’uomo o della donna. In questo caso io sono in una posizione d’osservazione molto particolare, minoritaria. E insieme, da un altro punto di vista, guardo da una postazione di privilegio, anche intellettuale in fondo, giacché sono professionalmente un’addetta ai lavori, insegno all’università. E tuttavia il percorso di ricerca attraverso i testi dei bambini è stato difficile, a tratti quasi insostenibile.
Ho poi scelto i bambini come gruppo d’indagine perché volevo studiare innanzitutto i processi di riproduzione del razzismo, e studiarli nel momento in cui vengono ...[continua]

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