Mario Agostinelli è segretario regionale della Cgil della Lombardia.

Avete indetto per il 20 settembre una grande manifestazione contro la secessione. Puoi parlarcene?
Noi abbiamo voluto fortemente questa manifestazione. Tra l’altro ciò ha provocato non poche resistenze interne, perché nella storia di un sindacato forte, come quello lombardo, fino ad ora la co-presenza di un atteggiamento corporativo, ma anche fortemente rivendicativo, proveniente dalla cultura leghista, non era stato percepito come un corpo estraneo al sindacato neanche dalla grandissima parte dei nostri quadri. Nello scontro "canonico" che tu aprivi con le controparti di sempre, la Lega non era costretta a venire allo scoperto. Questo anche perché l’esplosione della ricchezza enorme di questa regione, la seconda regione più ricca di tutta l’Europa, faceva pensare che qui ci fosse comunque da distribuire a tutti e, quindi, anche chi aveva un orizzonte puramente rivendicativo, anche se entrava in rotta di collisione con i tuoi valori fondamentali, poteva tatticamente continuare a stare dentro. Le contraddizioni più forti sono esplose nell’ultimo anno, quando la secessione, per la Lega, è diventata l’elemento di identità, facendo uscire allo scoperto l’idea forte che la Lega diffonde, e che comporta diritti con una gerarchia e una legittimità diversa a seconda che si sia residenti o meno. Rispetto a un’atteggiamento di tolleranza di fatto, che partiva dalla considerazione che, tutto sommato, in presenza di tanta ricchezza, la si poteva distribuire anche agli extracomunitari, ai meridionali che erano qui, il punto di svolta è stato il momento in cui la secessione è diventato l’orizzonte istituzionale strategico proclamato, e nella pratica anche rivendicativa sindacale sono diventati i residenti i destinatari delle rivendicazioni, con una separazione netta verso quelli che residenti non sono.
Allora la rotta di collisione col sindacato emerge. Perché? Perché qui, al contrario che nel Veneto, dove il benessere arriva negli ultimi anni, la ricchezza è in continua progressione dai tempi dell’immigrazione; la gran parte dei quadri qui, quelli che sono in fabbrica, hanno fatto tutti l’esperienza dell’accoglienza, cioè il sindacato era il luogo dove i meridionali venivano accolti e integrati, e diventavano cittadini politici, sindacali, diventavano i capi delle fabbriche. I capi delle nostre fabbriche sono in gran parte meridionali (e, paradossalmente, i meno contrari alla rottura con la Lega sono i figli dei capi meridionali delle fabbriche, ma perché hanno vissuto meno l’esperienza dell’integrazione). La reazione più forte sul piano dei valori viene ancora dai quadri che avevano fatto l’operazione di integrazione. La Lombardia è stata un tipico esempio di integrazione, molto diverso dal Piemonte; qui il sindacato, e il Pci a suo tempo, hanno fatto un’esperienza di solidarietà Nord-Sud che vive ancora nella sua storia. Per cui adesso si guarda con sospetto ogni idea di chiusura verso chicchessia, anche verso gli extracomunitari. E fra gli stessi immigrati meridionali la parte che si sente più colpita è quella che vede messa in discussione la sua legittimazione non nel luogo specifico di lavoro, ma nel paese dove abita, nella comunità: ad esempio gli insegnanti, che vengono additati, "lui è un insegnante meridionale", o gli impiegati pubblici che sono allo sportello, e tutti quelli che hanno relazioni. In fabbrica, invece, è molto difficile rompere con i meridionali, perché hanno conquistato una loro credibilità, la spendono, hanno difeso gli altri, sono stimati; invece quello che sta allo sportello, quello che intrattiene le relazioni sociali respira questo clima di ostilità, sente il peso di una società che gli si sta mettendo contro, una società che ha fatto dell’identità, anche etnica, uno dei suoi criteri di riconoscimento.
La Lega però resta forte, relativamente si intende, anche fra gli operai. Come si spiega?
Di fronte all’accelerazione del processo di integrazione europea, tanti operai e tanti pensionati ex-operai, iscritti al sindacato, che con le loro lotte hanno conseguito certe conquiste, hanno paura che queste vengano ora messe in discussione. Allora il messaggio della Lega che dice: "Guardate che per entrare in Europa, non c’è problema se molliamo gli altri, andremo con due monete...", ha una certa presa. Ecco allora che anche alcuni dei "nostri", alcuni di quelli che hanno lottato, ora dicono: "Se non ce la facciamo ...[continua]

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