Francesco Giuliari, insegnante, vive a Vicenza. E’ stato per due volte parlamentare, la prima nel 76-79, con la Dc, dove ricoprì incarichi di responsabilità nella segreteria di Zaccagnini e la seconda nel 92-94, con i Verdi. Oggi milita nel Partito popolare.

Dopo l’azione al campanile di San Marco a Venezia, come vedi la situazione rispetto alla Lega, al Veneto, ai rischi di secessione?
Siamo ad un momento critico e di svolta per la Lega. Da una parte ha ottenuto due successi, con il referendum autogestito e con il voto-agguato in Bicamerale; dall’altra stanno emergendo le sue ambiguità di fondo e, soprattutto, la totale inconsistenza della sua proposta politica.
Vediamo prima i due punti a favore. Il referendum dei gazebo ha dimostrato una capacità di mobilitazione capillare e una sostanziale credibilità della Lega in larghe zone delle regioni prealpine. La gente è andata a votare, non nelle dimensioni inventate a tavolino dai leghisti, ma in quantità certo preoccupante; soprattutto sono andate a votare tutte le componenti demografiche e sociali: anziani, giovani, donne, famiglie, lavoratori e imprenditori. La gente, per votare, ha dovuto superare il disagio di una condizione di diversità e di "illegalità"; non si è lasciata intimorire dal rischio del ridicolo: è andata a votare, davanti a tutti.
Con il referendum dei gazebo, molti elettori della Lega hanno scelto di venire allo scoperto: per questo solo motivo, l’appuntamento di stampo referendario, certamente non disertato dalla gente, si è risolto in un successo per la Lega.
C’è stato poi il voto in Bicamerale. Non tanto perché l’agguato ha messo in grave difficoltà Polo e Ulivo, che volevano accordarsi (cosa lodevole) sottobanco (cosa meno lodevole) mantenendo in pubblico gli atteggiamenti rissosi tipici di schieramenti inconciliabili, ma perché la Lega, gestendo la questione in modo ignobile da un punto di vista dell’immagine, ha dimostralo in concreto di non avere più alcuna necessità di tener conto dell’opinione pubblica nazionale. I suoi rappresentanti in Bicamerale hanno, infatti, votato a favore del presidenzialismo senza portare alcuna giustificazione, senza alcuna dichiarazione di voto o preannuncio, cogliendo di sorpresa quelli che stavano già alzando le mani per votare. Una cosa squallida e senza precedenti. Se, però, un soggetto politico può permettersi una totale inspiegabilità dei propri gesti dinanzi all’opinione pubblica, significa che considera i suoi consensi aprioristicamente garantiti. E, visto che contraccolpi interni non ne ha avuti, la Lega ormai può fare qualsiasi cosa: la maggioranza dei suoi elettori è oramai impermeabile a qualsiasi ragionamento di altra provenienza. Questo, sul piano tattico di breve e medio periodo, non è un vantaggio da poco.
Veniamo ai punti di debolezza…
Paragono spesso la Lega ad un grande incendio o ad una invasione di cavallette. Non si può arginare né l’uno né l’altra. Ma il fuoco si spegne quando ha trionfato, avendo bruciato tutto il bruciabile; le cavallette, invece, muoiono paradossalmente di fame, quando non c’è più niente che sia resistito alla loro voracità. Bossi ha predicato da anni il totale rifiuto dello stato nazionale: via da Roma, via dall’ltalia. Le sue prediche hanno trovato terreno fertile, soprattutto nel Veneto, e argomenti a iosa nelle inadeguatezze della politica romana. Oramai pochi sentono ancora un vero feeling verso lo stato italiano. Molti lo difendono ancora, ma quasi sempre per dovere d’ufficio o per abitudine; ben pochi lo fanno in modo convinto e mostrando entusiasmo. Ma rotto l’argine dell’identificazione in qualcosa di unificante, spuntano i campanilismi, i particolarismi. Non emerge un’identità padana (e, d’altra parte, dove potrebbe fondarsi?), ma emergono microidentità: quelle regionali, provinciali, di valle o di contrada.
La questione del campanile di San Marco al riguardo è illuminante. Bossi ha capito subito che quella pagliacciata era pericolosa per la Padania, perché rilanciava un marchio concorrente di ben maggiore efficacia (quello della Serenissima); ha subito incolpato, per questo, i servizi segreti; ma, dopo due giorni, a Venezia, durante la trasmissione Pinocchio, ha dovuto farsi paladino, lui stesso, della difesa della particolarità veneta per non trovarsi fuorigioco.
La contraddizione è evidente perché la Serenissima è la fine della Padania. Sarebbe come considerare alleati, contro Roma, i sudtirolesi, senza capire che loro vogliono ...[continua]

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