Dopo la laurea in Disegno Industriale al Politecnico di Torino ed il master "Man and Humanity” alla Design Academy di Eindhoven, in Olanda, Laura Boffi si è specializzata a Copenaghen con "Weaving Relationships” un progetto pensato per l’hospice e per i servizi di assistenza ai malati terminali.

L’originalità del tuo progetto parte da un bisogno semplice ed insieme complesso: quello di intessere relazioni, come dice il titolo stesso, anche nella malattia. Di mantenere vivo fino all’ultimo lo scambio con le persone che amiamo.

Sì, volevo creare una possibilità di colloquio, di condivisione tra i malati terminali, i parenti e lo staff medico. Nella mia esperienza, la malattia, e in particolare quella terminale, spesso è avvolta da un muro di silenzio. In ospedale le persone vorrebbero parlare, vorrebbero poter dire quello che sta succedendo loro, ma spesso non trovano un modo per farlo. Ho trascorso un periodo ­all’hospice di Antea, dove ho cercato appunto di capire cosa succedeva, ho parlato con le persone. Proprio da questa ricerca sono nati gli oggetti di "Weaving Relationships”: le matriosche, la casetta da appendere ad un albero per la registrazione dei messaggi, e la coperta del commiato. L’idea alla base è che i giorni trascorsi in ospedale non sono l’attesa della fine, ma servono a costruire qualcosa: uno scambio, una relazione. È un progetto che mi portavo dietro da anni, in cui sono confluiti lavori precedenti. Da tempo avevo iniziato ad interrogarmi sulla morte, su come moriamo, su come ci separiamo dalle persone che amiamo.
Nei tuoi progetti ricorre spesso il tema della morte, il senso della vulnerabilità e della finitezza dell’uomo. Temi un po’ insoliti per oggetti di design.
Sembrano insoliti forse perché quando si parla di design si tende a pensare al design del prodotto, per cui lo si associa facilmente a mobili e lampade.
Grazie ai miei studi all’estero mi sono avvicinata ad un altro tipo di progetti, che mi interessavano di più. Ad esempio in Olanda, durante il corso di studi in design umanitario, ho imparato l’importanza della ricerca, che precede lo sviluppo dell’idea progettuale, intervistando le persone ed osservandole nel loro contesto.
Allora, se si tratta di sviluppare tecnologie per i paesi in via di sviluppo, bisogna intanto capire cosa serve a loro. Solo così può nascere, ad esempio, l’idea di un frigorifero che invece dell’elettricità usa la terracotta locale.
Un altro interesse che ho sviluppato in Olanda è quello di immaginare le applicazioni future per le tecnologie di oggi. Cioè trovarvi scopi non previsti all’inizio.
Per questo cerco di creare dei contesti che aprano gli occhi, che permettano alle persone di vedere un oggetto e i suoi possibili sviluppi futuri. Per superare la diffidenza iniziale verso ciò che è nuovo e impensato.
Come hai lavorato per "Weaving Relationships”: che tipo di osservazioni hai fatto, con chi hai parlato?
"Weaving relationship” è stato il mio lavoro finale dell’anno di specializzazione al Copenaghen Institute of Interaction Design (Ciid), che tra l’altro ha origini italiane, essendo in parte derivato dall’esperienza dell’Interaction Design Institute di Ivrea. È stato fondato da Simona Maschi, insegnante ad Ivrea; i docenti sono tutti dei professionisti, vengono per una o due settimane e si lavora insieme su dei progetti reali.
È stato un anno molto intenso, ogni settimana partivano progetti su temi diversi. Non si dormiva mai.
Per un progetto di ricerca sul pronto soccorso, durante il corso di User Research, abbiamo lavorato in un ospedale: dovevamo osservare le persone ed il loro lavoro per ricavarne degli insights, ovvero intuizioni significative sui bisogni degli utenti e dello staff, o opportunità per sviluppare qualcosa che migliorasse l’esperienza del pronto soccorso. Nel nostro gruppo avevamo tutti esperienze diverse: un software engineer, un ingegnere dei materiali, un esperto di scienze delle comunicazioni, tanto per dirne alcuni. Ed è bene che sia così. Un designer non dovrebbe mai lavorare da solo. È importante sviluppare i progetti insieme ad esperti di altre discipline. È una specie di fucina dove in continuazione si creano e si scartano nuove idee.
Ogni giorno, divisi in gruppetti di due, affiancavamo un infermiere o un altro operatore. Poi ci ritrovavamo la sera per dire cosa avevamo visto. Alla fine di questo lavoro di osservazione abbiamo formulato le "sfide” progettuali a cui dare una soluzione: c ...[continua]

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