Marina Valcarenghi, psicoanalista di formazione junghiana, dirige una scuola di psicoterapia a Milano dove insegna Psicologia analitica e Psicoanalisi degli aggregati sociali. E’ docente di Psicologia clinica presso il corso di perfezionamento in Psicologia giuridica e penitenziaria dell’Università di Urbino e presso il corso di perfezionamento in Criminologia della facoltà di Medicina dell’Università Statale di Milano. E’ presidente dell’associazione Viola per lo studio e la psicoterapia della violenza. Il libro di cui si parla nell’intervista è Ho paura di me. Il comportamento sessuale violento, Bruno Mondadori 2007.

Per nove anni hai portato avanti un progetto pilota di psicoterapia nella sezione di isolamento maschile del carcere di Milano-Opera, dove vengono reclusi i colpevoli di reati sessuali come violenze e pedofilia. Puoi raccontare?
Come tutti quelli che fanno il mio mestiere mi sono trovata moltissime volte ad avere dei pazienti, sia donne che uomini, che erano stati abusati nell’infanzia. Tante volte mi chiedevo: ma "loro”, dove sono? Se c’è un abuso, c’è un abusante; sono davvero solo in prigione? E chi se ne occupa? Non staranno mica bene. Siccome io sono da sempre convinta che i mostri esistono soltanto dentro di noi, non ho mai creduto che le persone che abusano sessualmente siano perverse, cattive, malate nel senso di "mostri”, scherzi di natura; ho sempre pensato che fossero persone che stavano soffrendo e che forse si poteva andare a cercare il motivo di questa sofferenza. Però non avevo modo di incontrarli perché nessuno veniva in studio -credo per la paura della denuncia soprattutto- e quindi la mia curiosità rimaneva lì...
Poi mi è arrivata una proposta: un vice-direttore di carcere di Opera aveva letto un mio libro-inchiesta sui manicomi criminali e siccome aveva dei problemi nel reparto di isolamento maschile, dove appunto si trovano anche i pedofili, mi ha contattato per sapere se ero disposta a lavorare con loro "per diminuire l’aggressività”, diceva lui. Lì dentro erano infatti molto autolesionisti ed eterolesionisti, erano violenti.
D’altra parte l’isolamento, la giovane età, la forte presenza di stranieri, ma soprattutto una situazione segnata da niente sesso, niente lavoro, niente famiglia certo non aiutava.
Ho accettato questo lavoro a delle condizioni: che nessuno potesse sentire quello che dicevamo, che io potessi rispettare il segreto professionale e che mi aiutassero a sviluppare all’interno del reparto delle attività collaterali. All’inizio pensavo a queste attività soprattutto per diminuire la tensione aggressiva; se hai delle cose da fare e non stai sempre sulla brandina a guardare la televisione, ti scarichi. Poi mi sono accorta di quanto fosse importante questo scambio dentro/fuori proprio per la terapia che stavo facendo. Così ho cominciato a organizzare anche delle feste: a Natale e a giugno facevamo una grande festa nel reparto. Portavo di tutto: vino, lasagne, vitel tonné, cassata.
All’inizio non sapevo chi avrei incontrato: avevo chiesto che la partecipazione fosse assolutamente volontaria e che non fossero più di quindici persone. Avevo preparato una scheda di adesione in cui spiegavo un po’ di cosa si trattava. Si sono iscritti subito in diversi e questo mi ha fatto molto piacere. In realtà non ne avevo motivo: loro si erano iscritti prima di tutto perché ero una donna, poi perché erano annoiati. Incontrare me era comunque un diversivo rispetto alla televisione, alla cella. Ma in realtà non avevano alcuna intenzione di aprirsi e di parlare davvero, non si fidavano assolutamente, non credevano al fatto che io avrei rispettato il segreto professionale, e non si fidavano neanche degli altri, avevano paura di essere presi in giro, sputtanati.
Insomma, è stato un inizio bestiale, tanto che stavo per mollare. A quel punto però ho fatto un sogno particolare (ne parlo nel libro), a cui è seguita una discussione che mi ha consentito di cominciare. Coinvolgerli nell’interpretazione di quel sogno è stata un’occasione per spiegare loro anche le mie paure. E per chiedere il loro aiuto perché in fondo era un’esperienza nuova anche per me. Ha funzionato.
Non avevo mai visto in faccia degli stupratori e dei pedofili. All’inizio non sapevo come avrei lavorato perché su questo argomento non esiste alcuna pubblicazione se non di psicologia cognitivo-comportamentale (in genere traduzioni da libri americani), ma niente di psicoanalisi, che è il campo in cui si ...[continua]

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