Livio Corazza, 58 anni, ex operaio ThyssenKrupp, vive a Torino.

Ho lavorato dentro a quello che fino a dicembre era lo stabilimento ThyssenKrupp di corso Regina, a Torino, per trentatré anni. Sempre là dentro, nello stesso posto.
Ho cinquantotto anni. Sono entrato in fabbrica che ne avevo diciannove, nel 1968. Ero un ragazzino, allora si usava fare il corso allievi operai, e poi in base alle proprie attitudini si veniva assegnati al grande stabilimento che era la Teksid di allora, la Fiat Ferriere. Tra i vari reparti, eravamo dodicimila dipendenti. Nella manutenzione, che era il lavoro che facevo io, eravamo duemila dipendenti. Duemila persone: praticamente un sesto dei lavoratori facevano manutenzione. Basta questo dato per capire l’importanza che aveva la manutenzione agli occhi dei dirigenti. Altre tre-quattromila persone ruotavano all’interno dello stabilimento, nelle varie ditte appaltatrici. Quello stabilimento era, veramente, un cantiere continuo. Si entrava facendo il corso di sei mesi come allievo operaio, e poi si era assegnati nei vari reparti, e affiancati a un gruppo di operai esperti. Noi il caposquadra non sapevamo nemmeno chi fosse, il nostro responsabile era l’operaio esperto, che ci diceva, ogni qualvolta c’erano da fare dei lavori, fai così, fai cosà, e mi raccomando fai esattamente cosa ti diciamo noi, perché il lavoro è pericoloso. Non prendere assolutamente iniziative.
E’ andata avanti così fino ai primi smantellamenti degli anni Ottanta, quando ci sono stati i famosi scioperi Fiat, i Quarantamila, e le Ferriere Fiat hanno cominciato a chiudere. A quel punto di giovani non ne sono più entrati. Fino a che tutti i reparti non sono stati chiusi, e delle antiche Ferriere è rimasto solo lo stabilimento di corso Regina, passato alla proprietà della Terni Acciai Speciali, che è poi diventata Thyssen.

Sono venuto a Torino nel 1963, con i miei genitori. Mio papà faceva il contadino in Sardegna, ma le cose non andavano bene in quel periodo. Lavorando in una bonifica aveva preso la malaria e tutte le malattie più terribili, e infatti i miei genitori sono morti tutti e due dopo pochi anni. Mio padre è morto nel 1970 e mia madre nel 1973, di tumore. A Torino mio padre aveva lavorato in una fonderia. Abitavamo a Settimo Torinese. Io sono andato a scuola, ma ho iniziato a lavorare giovane, a sedici anni, perché non avevo molta voglia di studiare. Venuto via da ragazzino dalla Sardegna, a Torino ero un pochino emarginato, ecco. Comunque sono andato a lavorare, ho lavorato in una ditta di artigiani, ho imparato là a fare dei lavori di manutenzione. Finché non sono stato assunto in Fiat. Ma la storia di quell’assunzione vale la pena di essere raccontata. Avevo fatto domanda, ma non mi chiamavano. Mia madre, zitta zitta, è andata dal parroco del paese, si è fatta fare la dichiarazione che io ero un bravo ragazzo, che ero tutto casa e chiesa e via dicendo, e dopo tre mesi finalmente si sono decisi a chiamarmi. Tutti, tutti sono entrati così. Mi ricordo le famose schedature Fiat, erano tutti schedati. Quando sono andato a fare le visite, sia le visite personali sia i colloqui, mi hanno detto: devi portare La Stampa, ricorda, non altri giornali, perché La Stampa è Fiat, e devi aprirla alla pagina dove parla della Juve, in modo da dire chiaro e tondo che non ti interessi di politica, ma solo di sport, e vai tranquillo. Guardavano anche quelle cose lì. Sembra uno scherzo, ma purtroppo non lo è.
Comunque, finché eravamo Fiat si lavorava molto bene, c’era un’organizzazione solida. Eravamo l’officina più grande d’Europa, da noi si costruiva tutto. Cose che oggi si mandano a ditte esterne, noi le facevamo nello stabilimento, dalla fase progettuale alla costruzione dei pezzi di ricambio, tutto all’interno del padiglione. In corso Mortara, dove adesso hanno costruito i grandi palazzi per le Olimpiadi, c’erano le officine di manutenzione e di fabbricazione dei pezzi di ricambio della Fiat Ferriere. Più avanti, negli anni Ottanta, siamo passati all’Ilva, con partecipazione statale. Sono cominciati gli ammanicamenti politici. Venivano imposti, che so, il capo del personale, i dirigenti e così via, e abbiamo cominciato a lavorare in maniera diversa… ma si lavorava ancora bene, per l’amor di Dio. E si aveva la sensazione che, comunque andassero le cose, eravamo coperti, immersi nel grande calderone delle partecipazioni statali. Eravamo tranquilli, ecco. Fino a quando non hanno ceduto le partecipazio ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!