Maria Viarengo, etiope, arrivata in Italia negli anni ’70, e Maritè Calloni sono socie del Centro interculturale Alma Mater di Torino.

Potete raccontare come è nato il centro Alma Mater?
Maria Viarengo. Sono qui da più di trent’anni. Quando sono arrivata in Italia lo straniero era una “chicca”, era ben visto. Ricordo che alcune persone ci mettevano alla prova facendoci ripetere un’espressione piemontese non facile da dire. Ma questo succede in tutto il mondo, anche in Etiopia gli italiani si cimentavano con parole e frasi nella nostra lingua, facendo felici gli autoctoni, perché vuol dire che stai cercando di capire chi sono, qual è la mia lingua. Allora comunque ci si contava sulla punta delle dita. Col tempo l’atteggiamento nei nostri confronti è diventata una cartina tornasole: quando il numero degli immigrati è cominciato ad aumentare, il clima nei confronti del diverso si è alterato, anche con l’emergere di manifestazioni di razzismo; e devo dire che i giornali non hanno fatto nulla o quasi per abbassare i toni.
In quel periodo credo che la scuola, alcune associazioni, in generale i gruppi che già lavoravano in quest’ambito, che magari avevano iniziato occupandosi dei meridionali, siano stati un laboratorio straordinario.
Il fatto è che il panorama torinese che si occupava di accogliere i nuovi immigrati era completamente maschile.
Così, un 8 marzo, mi pare del 1990, un gruppo di donne italiane e straniere si sono trovate a un incontro sull’immigrazione e da lì è nata la proposta di creare una casa per le donne. L’idea ha incontrato la sensibilità e l’entusiasmo di un primo nucleo di donne italiane appartenenti all’associazione “Produrre e Riprodurre” che ha deciso di accettare la sfida e di percorrere questa nuova pista.
Le donne provenivano da diversi paesi (Somalia, Marocco, Costa d’Avorio, Iran), ma vivevano in Italia da diversi anni e cercavano forme di integrazione che non passassero attraverso l’assistenzialismo.
Infatti al Comune si presentò l’idea di un luogo all’interno del quale si sarebbero fatte tutta una serie di cose. Ricordo che il sindaco di allora si stupì di questo progetto, non capiva: “Ma queste donne stanno chiedendo assistenza?”, “No, vogliono offrire del lavoro, mettere a disposizione le loro risorse, confrontarsi, eccetera”. Questo progetto era stato firmato, tra le altre, da Sued Benkhdim, una delle ideatrici oltre che una donna straordinaria, mancata purtroppo lo scorso anno, da una donna della Costa d’Avorio, Yolanda e da Giovanna Zaldini, somala, che è stata e resta una colonna dell’associazione…
A quel punto abbiamo iniziato a cercare uno spazio, intanto si lavorava con le donne dei vari gruppi impegnati. Ci si incontrava alla Casa delle donne perché non c’erano altri spazi. La rete delle conoscenze e delle relazioni è stata preziosissima; Marisa Suino, presidentessa di circoscrizione a un certo punto aveva segnalato questa scuola, l’Alma Mater, ormai abbandonata visto che gli italiani non fanno più figli, e che poi effettivamente è diventata la nostra sede. Abbiamo voluto mantenere il nome, anche perché nel quartiere era conosciuto e poi perché ci piaceva, ci sembrava corrispondente. Così, il Centro interculturale delle donne Alma Mater è nato formalmente nel 1993 con il contributo ed il patrocinio del Comune di Torino e della Regione Piemonte. Nel maggio 1994 si è invece costituita l’associazione Almaterra per coordinare e gestire le attività e i servizi del centro.
Alcune delle socie fondatrici si sono assunte anche una sorta di “rischio d’impresa” per far partire il centro. Potete raccontare?
Maria. Se alcune donne italiane non avessero fatto una fideiussione, l’Alma Mater non sarebbe potuta partire, perché nessuna banca o istituzione avrebbe riposto la propria fiducia su delle donne straniere.
Ancora oggi, per me il fatto che Maritè e le altre abbiano compiuto questo gesto è una cosa che mi commuove e che vorrei che le generazioni nuove sapessero. Loro invece, anche per una forma di pudore, comprensibile, tendono a non dirlo. Io però credo che quello che hanno fatto abbia un grande valore. La loro è stata una scommessa personale anche di rischio, quasi con uno stile imprenditoriale, nel senso che hanno rischiato del loro. E poi è stata una scommessa di donne per le donne, e questo continua a commuovermi. Io non so se l’avrei fatto, non lo so…
Maritè. Facemmo la fideiussione in cinque, quelle che avevano una casa di proprietà perché la banca ...[continua]

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