Nadia Urbinati insegna Teoria politica alla Columbia University di New York. Collabora a varie riviste di teoria e filosofia politica. E’ autrice, tra l’altro, di Mill on Democracy: From the Athenian Polis to the Representative Government, University of Chicago Press, 2002, che ha ricevuto il Eleain and David Sptiz Book Prize come migliore opera sul pensiero liberale e democratico (tradotto in Italia da Laterza). Recentemente ha pubblicato Representative Democracy: Principles and Genealogy (University of Chicago Press 2006).

Da tempo seguiamo varie esperienze di democrazia deliberativa, come i bilanci partecipativi, i forum, i sondaggi deliberativi, le giurie dei cittadini. In uno degli ultimi numeri, Luigi Bobbio ha raccontato della diffusione del sorteggio come metodo per correggere il carattere elitario della democrazia rappresentativa e coinvolgere anche la cittadinanza “passiva”. Tu avanzi delle perplessità proprio su una questione di fondo…
Queste esperienze si inseriscono in un dibattito più ampio, e importantissimo, sui limiti della democrazia rappresentativa. L’attenzione per i sondaggi deliberativi -sorta qualche anno fa negli Stati Uniti per opera principalmente di James Fishkin- da un lato, è figlia di quella corrente di pensiero che, a partire dalla metà del XX secolo, ha individuato nell’opinione pubblica il protagonista principale della democrazia indiretta o rappresentativa; dall’altro è un’opportunità per recuperare forme dirette di partecipazione democratica.
Giancarlo Bosetti giustamente sostiene che in italiano converrebbe non chiamarli “sondaggi deliberativi” perché nella nostra lingua “deliberazione” equivale a decisione; meglio “sondaggi informati” poiché il loro scopo è quello di facilitare la comprensione di questioni complesse altrimenti trattate superficialmente o “soverchiate” da pregiudizi nei tradizionali mezzi di informazione.
Si tratta, come si può intuire, di una discussione molto interessante, soprattutto se si tiene presente la crisi di legittimità politica e simbolica che la democrazia rappresentativa sta attraversando oggi nel nostro paese, dopo cinque decenni di ininterrotta applicazione nel continente europeo. E’ sotto gli occhi di tutti lo scivolamento oligarchico dei parlamenti e della rappresentanza, sotto forma di divaricazione tra cittadini ed istituzioni e di assenza di “rappresentatività” del corpo legislativo, come ha riconosciuto di recente anche il Presidente della Repubblica. La crisi della democrazia rappresentativa è stata accelerata dalla crisi e scomparsa dei partiti ideologici tradizionali, i quali, nella fase di assestamento della democrazia moderna, hanno giocato il cruciale ruolo di raccordo tra le istituzioni e il cittadino, organizzando il consenso e, contemporaneamente, controllando i rappresentanti. Come scriveva Lelio Basso negli anni Cinquanta del secolo scorso, nella democrazia rappresentativa i partiti politici sono essenziali perché è grazie a loro che il “sovrano” (il popolo, ormai senza “scettro” perché non legifera più direttamente), può mantenere attiva la sua influenza indiretta e permanente sulle istituzioni. Scomparsi i partiti politici o, che è anche peggio, trasformati in macchine di caccia al voto, non su progetti politici, ma intorno al nome di alcuni leader o, più crudamente, al servizio di interessi organizzati, la democrazia cessa di essere rappresentativa. Il richiamo alle “riforme”, infatti, spesso è non soltanto generico e mal concepito ma non denota nulla, poiché le riforme sono un mezzo per il raggiungimento di un obiettivo, non un fine.
Il problema è dunque concreto e molto attuale. Come affrontarlo e risolverlo? Come reagire alla fine dei partiti ideologici, gli unici che mobilitavano la partecipazione? Come riportare la rappresentanza sui binari democratici? La gemmazione di forme deliberative dirette (benché solo consultive) vuole essere una risposta a questo problema. Vediamo allora di capire il contesto ideale e teorico nel quale questi esperimenti sono sorti.
Il tema della democrazia deliberativa è stato rilanciato negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, grazie soprattutto a Jürgen Habermas, in chiave di critica sia della democrazia popolare (o di tipo sovietico) sia della democrazia elettoralistica (il modello elitario). La teoria deliberativa è nata dall’insoddisfazione per la democrazia popolare egualitaria (dominata dal partito unico e dalla repressione della sfera pubblica) e per ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!