Sandro Onofri, giornalista de “L’Unità” e scrittore, ha recentemente pubblicato Vite di Riserva, un reportage sugli indiani d’America.

Andando nelle riserve degli indiani americani ti sei in qualche modo rapportato con quello che per noi europei è "l’altro" più altro...
C’è da dire innanzitutto che gli indiani sono una parte della popolazione povera degli Stati Uniti, ma non è giusto dire che sono degli americani perché non si sentono assolutamente tali. Vivono in situazioni tremende e il dilemma da cui non escono è che sono spaccati in due tronconi uno dei quali, a sua volta, è spaccato in due. Ci sono i tradizionalisti e gli “integrati” e ogni tanto si legge sui giornali di questa specie di guerra, che nella riserva degli Irochesi a volte è una guerra civile vera e propria. La spaccatura è su questioni molto pesanti: c’è chi vuole introdurre le case da gioco nelle riserve, che non pagano tasse agli USA, perché almeno sono soldi, posti di lavoro e quindi non si muore più di fame, di alcool o di droga, e chi invece vuole mantenere a tutti i costi un’identità indiana e quindi rifiuta ogni tipo di rapporto con la modernità occidentale. All’interno del “blocco” più portato al confronto col mondo dei bianchi e al rischio della propria identità culturale ci sono poi due “partiti”: quelli che decisamente vanno all’integrazione -e sono quelli che stanno nelle grandi città, che vivono da bianchi e che, nei casi più degradanti, entrano nel giro delle case da gioco e della malavita, tant’è che ad Atlantic City c’è una mafia indiana abbastanza forte- e quelli che fanno il discorso, secondo me più intelligente e realistico, di entrare nella logica della società di mercato americana, quindi di guadagnare soldi e competenze, per portare tutto quel che se ne ricava nelle riserve. In un secolo è avvenuto uno snaturamento radicale della cultura indiana, pensiamo, per esempio, alla medicina tradizionale: pochissimi sono in grado di gestirla, e comunque non sarebbe più adatta perché gli indiani di oggi non sono più un popolo nomade, e quindi gli indiani, anche i tradizionalisti, gli anziani, cioè quelli che non parlano inglese, devono andare a curarsi negli ospedali delle riserve. Ma questi, che da sempre sono gestiti dai bianchi, vengono affidati a neolaureati che cambiano ogni tre anni e questo ha comportato casi di dolo gravissimi: donne a cui sono state distrutte le tube, neonati rapiti, eccetera. L’idea di quelli che vogliono rapportarsi con la società americana è di tornare nelle riserve con le competenze e con i soldi per gestirle da soli perché l’intento è quello di arrivare all’indipendenza delle riserve stesse: indipendenza economica, della gestione, della normale amministrazione. Per fare questo, però, bisogna crearsi una base economica e culturale e per farlo devono entrare in contatto con la società bianca. All’interno di questo tipo di problematica chiaramente è difficile prendere una posizione, poi noi, ovviamente, prendiamo sempre contatto con quelli più disposti a un confronto, i quali proprio per questo sono, tra una quindicina di virgolette, “meno indiani” degli altri -loro dicono che non è così, dicono “Noi siamo indiani, crediamo nella cultura tribale che è il fondamento della vita indiana...”- e non entriamo in contatto con i tradizionalisti, che sono ancora molti, sono i più irriducibili e, soprattutto se anziani, non parlano l’inglese. Quando sono stato nelle riserve sono stato affascinato da quelli che mi odiavano, da quelli più antipatici, che mi rifiutavano, che non mi davano le indicazioni o, se me le davano, me le davano sbagliate (anche se spesso me ne sono accorto perché impari subito ad essere abbastanza smaliziato).
Ho subito meno, invece, il fascino di quelli che mi si sono dimostrati più amici, quelli con cui ancora adesso sono in corrispondenza. C’è una famiglia, che vive nello Stato di Washington, che mi scrive ed è molto disponibile, ma sono Testimoni di Geova e i loro miti potrebbero essere quelli di mio padre: i figli che devono studiare, che si devono sistemare; di “indianità” in loro c’è rimasto ben poco, c’è rimasto ben poco di quel senso di coinvolgimento che nasce dal vedere un popolo che sta lottando per la propria indipendenza e la propria identità. Però è anche vero, e qui sta il dramma, che quelli che lottano duramente sono perdenti: se oggi i tradizionalisti dovessero essere in maggioranza si potrebbe scommettere che tra vent’anni le riserve indiane non esiste ...[continua]

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