2 gennaio 2013. Bonifici contro la povertà
In India, a gennaio partirà un programma straordinario di lotta alla povertà, con una formula inedita. Non più soldi ai capovillaggi da distribuire ai bisognosi, ma semplici bonifici diretti all’interessato. Ne parla Julien Bouissou su "Le Monde”. I beneficiari presunti sono 720 milioni di indiani che sono stati dichiarati idonei a ricevere una delle 26 prestazioni sociali previste, dalle borse di studio alle pensioni, ecc. Da questo gennaio i 45 miliardi di euro stanziati per gli aiuti sociali saranno versati direttamente sui conti correnti bancari dei più poveri, così da evitare che finiscano nelle tasche di funzionari e intermediari corrotti. Nel 1985, Rajiv Gandhi, allora primo ministro, aveva stimato che su 100 rupie dispensate dal governo, quasi 85 venivano "deviate”. Il versamento diretto delle sovvenzioni si tradurrà quindi in un notevole guadagno per i beneficiari. Il problema è che più dei due terzi della popolazione usa esclusivamente il contante. Ma piuttosto che aprire agenzie dai costi proibitivi nei 600.000 villaggi, le banche si sono ingegnate e hanno mandato in giro dei corrispondenti (in bicicletta) armati di uno strumento in grado di verificare l’identità tramite l’impronta digitale e quindi di registrare la transazione ed erogare la somma. Per ora le aree interessate sono ancora limitate, ma entro la fine dell’anno l’intero territorio sarà coperto. Alcuni temono che il bonifico impedisca di condizionare l’elargizione. In Brasile, ad esempio, oggi gli aiuti vengono dati solo se i bambini vanno a scuola e fanno le vaccinazioni. Ma in fondo, fino a che l’India non ha le infrastrutture mediche e scolastiche necessarie è inutile porre condizioni. (lemonde.fr)

3 gennaio 2013. Il grande mismatch

In alcune zone dell’Europa e del Medio Oriente più di un quarto dei giovani tra i 15 e i 24 anni sono senza lavoro e nei paesi più sfortunati il tasso rasenta il 50%. Complessivamente nel mondo ci sono 75 milioni di giovani disoccupati. Questo non rappresenta solo un enorme spreco, ma anche una potenziale fonte di disagio. I giapponesi hanno coniato una parola per i 700.000 giovani che si sono ritirati dalla società richiudendosi in "bozzoli domestici”: Hikikomori. Intanto però le aziende non trovano le persone che cercano. Manpower, la più grande agenzia interinale del mondo, lamenta che più di un terzo dei datori di lavoro non riesce a riempire le posizioni vacanti. Cosa sta succedendo? McKinsey, società di consulenza, sostiene che il problema sta nel mismatch tra formazione e mondo del lavoro, che sembrano abitare universi paralleli e che quindi la soluzione sta nel farli incontrare. Il modo migliore per farlo è rinnovare l’istruzione professionale, da sempre (al di fuori del mondo tedesco) maltrattata dal sistema di istruzione. Alcuni paesi, più lungimiranti, ci stanno provando. La Corea del Sud ha creato una rete di scuole professionali, chiamate "meister” (termine tedesco per "maestro artigiano”), per ridurre la carenza di meccanici e idraulici. Il governo copre tutte le spese, vitto e alloggio inclusi. Altrove le scuole tecniche stanno allestendo repliche esatte dei luoghi di lavoro, al fine di superare il divario tra teoria e prassi. Il Challenger Tafe Institute of Technology di Perth, Australia, ha costruito una copia perfettamente funzionante di un impianto di lavorazione del gas naturale (meno il gas). In Egitto, il gruppo Americana, una società di prodotti alimentari e ristorazione, ha un programma che permette agli studenti di trascorrere fino a metà del loro tempo lavorando (e percependo un salario) e l’altra metà al college. Sono tutti tentativi e non è detto che funzionino, però c’è qualche motivo per essere ottimisti. Intanto la tecnologia ha abbassato i costi delle scuole professionali, uno dei motivi della loro scarsa diffusione. I simulatori permettono ai giovani di fare esperienza a costi minimi. Una migliore formazione professionale non è certo il toccasana per la crisi globale del lavoro: milioni di giovani saranno comunque condannati alla disoccupazione fino a quando la domanda non riprende. Ma può almeno intaccare questo assurdo mismatch che sta provocando non solo un’esorbitante carenza di posti di lavoro, ma anche una preoccupante perdita di competenze. (economist.com)

4 gennaio 2013. Sacchetti proibiti
"Tre decenni sono stati sufficienti a fare del sacchetto di plastica, meraviglia tecnologica in grado di sopportare un carico di 2000 volte il suo peso, il simbolo dell’incoerenza e dell’impronta ecologica dei nostri consumi”. Così comincia un articolo di Gilles van Kote, che su "Le Monde” racconta come, nel tentativo di fermare questo flagello che inquina paesaggi e oceani, dal I gennaio anche Mauritania e Mali abbiano vietato i sacchetti di plastica. Già da anni nel mondo i vari paesi hanno introdotto divieti o tassazioni per disincentivare l’uso dei sacchetti della spesa. È partita la Danimarca nel 1994 con una tassa. Nel 2002, l’ha seguita il Bangladesh che ne ha vietato l’uso, in quanto sospettati di aver causato gravi inondazioni a Dhaka. Lo stesso anno, l’Irlanda ha imposto una tassa di 15 centesimi per ogni sacchetto di plastica ottenendo un calo del 90% dei consumi. La produzione di sacchetti di plastica ha raggiunto tra i 500 e 1000 milioni di unità nei primi anni 2000. Pare ci vogliano fino a quattro secoli prima che inizino a deteriorarsi. In alcuni paesi africani sono in corso interessanti progetti di riciclo. L’Unione europea non ha ancora adottato un provvedimento unitario. L’Italia li ha banditi, la Francia ha deciso di introdurre una tassa di sei centesimi sui sacchetti usa e getta non biodegradabili, ma a partire dal I gennaio 2014. Intanto il consumo di sacchetti è sceso da 15 miliardi di unità nel 2003 a 800 milioni nel 2010. C’è però un effetto collaterale: la graduale scomparsa delle borse della spesa, un tempo riutilizzate per smaltire la spazzatura, sta facendo aumentare le vendite di sacchi per i rifiuti… molto più pieni di plastica di quelli della spesa! (lemonde.fr)

5 gennaio 2012. Una buona notizia
Dalle ultime indagini statistiche, nel Regno Unito è emerso un dato inatteso: in questi anni di crisi si è registrato un aumento considerevole nel numero delle donne del Pakistan e del Bangladesh che sono entrate nel mercato del lavoro. Il quasi mezzo milione di bangladesi e il milione di pachistani che vivono in Gran Bretagna, arrivati perlopiù tra gli anni Sessanta e Settanta, scontano una sorta di handicap auto-inflitto che fa sì che il tasso di occupazione delle donne sia la metà delle altre minoranze etniche. In questo fenomeno conta molto la cultura d’origine: in tali contesti risulta normale che le donne si occupino solo della casa. Poi ci sono i pregiudizi: spesso basta il cognome musulmano a impedire di trovare lavoro. Infine la scarsa conoscenza dell’inglese e la limitata scolarizzazione fanno la loro parte. Tuttavia c’è qualche segnale incoraggiante. Secondo l’indagine sulla forza lavoro, dal 2008, nonostante la recessione, la proporzione delle donne pachistane attive è cresciuta dal 29% al 43%. Nello stesso periodo il tasso di occupazione delle donne bianche è rimasto al 68% e tra le africane è sceso. Shamit Saggar, dell’Università del Sussex, segnala che le ragazze bangladesi a scuola hanno performance migliori delle compagne bianche. (guardian.co.uk)

10 gennaio 2013. Crisi: il Veneto
Veneto Lavoro, Ente della Regione Veneto che gestisce un portale sul lavoro, ha pubblicato i dati relativi alle crisi aziendali aggiornati a novembre 2012. Per il periodo gennaio-novembre emergono i seguenti fatti essenziali:
- le imprese che hanno annunciato l’avvio delle procedure di crisi sono in netto aumento rispetto al corrispondente periodo del 2011; il numero di lavoratori coinvolti risulta superiore non solo al 2011, ma anche ai livelli segnalati nel primo biennio di crisi (2009-2010);
- anche nelle procedure di crisi concluse (generalmente con un accordo sindacale) si registra, rispetto al 2011, un trend di crescita nel numero sia di accordi che di lavoratori coinvolti;
- per le ore di cig autorizzate si registra nel complesso un aumento di circa il 16% rispetto al 2011 (92,4 ml. contro 79,6 ml.), inferiore solo a quello del 2010 quando si era raggiunto il livello di 118,2 ml. di ore; la crescita della cig ordinaria (+44%) e della cig in deroga (+28%) ha più che compensato la riduzione della cig straordinaria (-8%); il numero complessivo di licenziamenti effettuati con successivo inserimento in lista di mobilità, riferito al periodo gennaio-ottobre, risulta in crescita (+3%): l’incremento dei licenziamenti individuali ha compensato la riduzione di quelli collettivi. (venetolavoro.it)

12 gennaio 2013. Il parere dei pazienti
Sull’onda dell’Affordable Care Act (più noto come Obamacare), che rivoluzionerà l’intero sistema sanitario americano, a New York stanno pensando a un esperimento audace: legare lo stipendio dei medici, non solo al contenimento delle spese, ma anche alla valutazione dei pazienti rispetto alle cure ricevute. Ne parla Anemona Hartocollis sul "New York Times”. I dottori sono preoccupati di venir così penalizzati da variabili fuori dal loro controllo, come la pulizia dei reparti o la gentilezza delle infermiere. Ma in parte è già deciso: nei prossimi anni il governo federale premierà o punirà gli ospedali in base a performance collegate allo stato di salute e alla soddisfazione dei pazienti trattati. L’idea è piaciuta anche agli amministratori degli ospedali privati che stanno considerando di incorporare i criteri federali nella loro struttura dei salari. Tra i 13 indicatori c’è il giudizio dei pazienti sulla qualità della comunicazione del medico, ma anche il tasso di rientro in ospedale nei 30 giorni che seguono la dimissione, il tempo dal triage al letto per certe patologie, ecc. I sindacati stanno mediando sul numero e il tipo di indicatori. Ma il vero problema è che i medici trovano questa proposta umiliante. D’altra parte il vecchio sistema di incentivi di fatto portava a un eccesso di diagnosi e spesso a un peggioramento delle stesse per poter giustificare terapie e interventi costosi. Tra i detrattori c’è chi ricorda il precedente inglese. All’epoca i bonus pensati per i medici che soddisfacevano una serie di requisiti finirono per essere dati a tutti dimostrando non tanto che la qualità era migliorata ma che (più probabilmente) i medici erano riusciti ad aggirare i test, per esempio cercando di evitare i pazienti poveri che notoriamente sono i meno soddisfatti e quelli che più difficilmente registrano grandi miglioramenti.
(nytimes.com)

13 gennaio 2013. Classi speciali
A dividerli c’è una porta rosa. Da una parte la classe con i 21 ragazzini considerati particolarmente "dotati” in base al "Gifted and Talented program” adottato dalle scuole pubbliche di New York, impegnati in un sorta di percorso "accelerato”. Dall’altra, tutti gli altri studenti, una buona parte dei quali coinvolti in azioni di sostegno. I 21 ragazzini sono quasi tutti bianchi; gli altri quasi tutti "colorati”. Ecco come si presenta la Public School 163 nell’Upper West Side. Sì, una scuola pubblica.
Al Baker, giornalista del "New York Times”, ha dedicato un lungo articolo a questa scuola e a questo metodo. La scuola ospita 652 studenti, 63% neri e ispanici, 27% bianchi, 6% asiatici, la demografia tipica delle scuole di New York. Nelle classi dei "dotati” il 47% è bianco, il 15% è asiatico e il 32% ispanico. Nelle altre classi solo il 18% è bianco. Il colpo d’occhio conferma i dubbi dei critici del "Gifted and Talented program” che temono che questo approccio non faccia che cristallizzare le disparità esistenti. Nel South Bronx, guarda caso, non è previsto alcun programma accelerato, non c’erano gli studenti sufficienti a formare una classe.
L’idea delle classi "talentuose” è stata voluta sicuramente per trattenere i figli della classe media nella scuola pubblica. Chi la difende però fa notare che questo programma è una grande opportunità anche per i bambini dotati delle famiglie ispaniche o afro-americane. Il problema però resta. I genitori dei ragazzini ispanici mandano i figli alla 163 perché viene prestata particolare attenzione a chi si trova in una situazione di quasi bilinguismo; gli afroamericani mandano i figli lì perché è la scuola del quartiere, è vicino a casa. Entrambi sono però convinti che i bianchi mandino i figli solo per quel programma, tant’è che nelle altre classi ce ne sono pochissimi. Sandra M. Echols, una donna di colore di 46 anni, madre single, ha mandato tutti e tre i suoi figli alle classi per i ragazzini dotati. Sua figlia per qualche anno è stata l’unica nera in classe. Ricorda ancora il giorno in cui si presentò per l’iscrizione alle classi accelerate: l’avevano presa per la governante. Per lei, ma soprattutto per i suoi figli, quella scuola è stata una grande fortuna (nytimes.com)

19 gennaio 2013. La fine del lungo?
Che la lunghezza di un pezzo non sia sinonimo di qualità si sa e tuttavia, esordisce Dean Starkman in un breve articolo sul sito della "Columbia Journalism Review” (sottotitolo: il futuro dei media è qui), è difficile affrontare temi complessi, come la crisi ad esempio, senza dilungarsi. Per non parlare di quando si devono portare le prove a sostegno di uno scoop contro qualche potente. Pensando che l’inizio del nuovo anno sia un momento propizio per i bilanci, Starkman è però costretto a riconoscere che molto è cambiato negli ultimi dieci anni rispetto alla lunghezza dei pezzi. Il "Los Angeles Times”, per dire, lo scorso anno ha pubblicato 256 storie lunghe più di 2000 parole, contro le 1776 del 2003. Il "Washington Post” ne ha pubblicate 1378 contro le 2755 del 2003. Il "Wall Street Journal”, pioniere dei pezzi lunghi, è passato da 721 a 468. Se poi si passa alle storie con più di 3000 parole la situazione è ancora più catastrofica: Il Wsj passa da 87 a 25 storie, registrando un crollo del 70%, il L.A. Times addirittura scende del 90% (da 368 a 34).

20 gennaio 2013. Dove va la Moldavia?
Quando si arriva in Moldavia, questo piccolo paese senza sbocco sul mare tra la Romania e l’Ucraina, ci si imbatte subito in un odore di comunismo, racconta Mirel Bran, corrispondente di "Le Monde”: "una miscela di gasolio sovietico e, con una fragranza più gradevole, di quella terra nera che fa la ricchezza del paese”.
Estesa su una superficie pari a quella del Belgio, la Moldavia è un cocktail di etnie. "Più della metà dei quattro milioni di moldavi sono rumeni, gli altri sono di origine russa e poi ci sono i gaugazi, cristiani turchi che rifiutavano l’Islam e si rifugiarono qui all’inizio del XIX secolo”, tralasciando i rom e una comunità tedesca. A vent’anni dall’indipendenza non è ancora chiaro dove andrà questo paese, dove ancora imperversano statue di Lenin e un doloroso ricordo dei tempi di Stalin, quando la maggior parte dei moldavi furono deportati in Siberia. Per la Moldavia, oggi l’Oriente incarna il passato e l’Occidente un possibile futuro prospero.
I romanofoni sognano ovviamente una riunificazione con l’originaria madrepatria. L’ingresso della Romania nell’Unione europea nel 2007 ha reso questa prospettiva molto allettante.
Già oggi la Romania offre a tutti i moldavi in grado di comprovare la loro origine rumena, il passaporto che apre anche a loro le porte dell’Unione europea e del suo mercato. I russofoni preferiscono viaggiare in direzione opposta, verso Mosca. "A ciascuno la sua patria”, commenta Bran. Intanto un milione di moldavi -un quarto della popolazione- è attualmente all’estero a lavorare. È solo grazie alle rimesse di chi se n’è andato che oggi questo paese, che registra un reddito medio di circa 180 euro al mese, riesce a sopravvivere. (lemonde.fr)

23 gennaio 2013. Un oceano di effimero
La Biblioteca del Congresso sta stoccando l’intero Twitterverso o Tweetosfera, cioè tutti i tweet pubblici. Sono un bel po’. La biblioteca si è imbarcata in questo progetto ciclopico nel 2010, quando ancora il servizio di microblogging non era così diffuso. All’epoca, in quattro anni di vita erano stati raccolti 21 miliardi di messaggi: la quantità che oggi si accumula in un mese. A dicembre è stata raggiunta la cifra di 170 miliardi di messaggi, ciascuno classificato con i suoi metadati (chi, quando, dove). "Un oceano di effimero, una biblioteca di Babele” (commenta James Gleick l’autore dell’articolo sulla "New York Review of Books”) di cui resta poco chiaro non solo il valore, ma anche la funzionalità; resta da capire, ad esempio, come si faranno le ricerche. Anche perché per tenere tutto online servirebbe una struttura di server simile a quella cui si affida Google. Se non altro chi s’è pentito di qualcosa che ha scritto ha poco da preoccuparsi: la possibilità che il suo tweet venga letto di nuovo in futuro è pari a zero. (www.nybooks.com)

24 gennaio 2013. Assistenti sessuali
Lo scorso settembre, a Losanna, sono stati rilasciati i primi dieci diplomi di assistenti sessuali (quattro donne e sei uomini) o "caresseurs”. La formazione comprende conoscenze in ambito medico, giuridico, sociale, sessuologico e etico. L’assistenza sessuale agli handicappati esiste da oltre 30 anni in Olanda, Germania e Danimarca. In Svizzera solo da poco aiutare gli handicappati a vivere una vita sessuale è diventata una professione riconosciuta. Una professione che suscita turbamento perché incrocia due tabù, quello dell’handicap e quello del sesso. I cosiddetti "carezzatori” generalmente hanno una normale vita di coppia. Spiegano di rispondere solo ad esplicite richieste delle persone interessate. Sono esclusi i baci e la penetrazione. Molti pongono un vincolo di età. Raccontano anche che arrivano diverse richieste dalla Francia e dall’Italia, dove questa pratica è proibita. Ad usufruirne sono soprattutto donne. Ma alla fine dello scorso anno si è parlato anche di come formare operatori che possano rispondere alle esigenze di persone con handicap e inclinazioni gay (http://www.loveability.it/noi-assistenti-sessuali/).
In un articolo sul "Frankfurter Allgemeine Zeitung” (tradotto da Rosa a Marca sul sito dell’Aduc) se n’è parlato anche all’inizio dello scorso anno. In Germania è stata l’olandese Nina de Vries (51 anni) la pioniera dell’assistenza sessuale. Oggi segue da anni alcuni pazienti. Ma non è l’unica, Catharina Koenig (53 anni) è stata impiegata per 25 anni in un ufficio fiscale; sei anni fa si è licenziata per le vessazioni subite, e si è messa in proprio come assistente sessuale. Non tutte le strutture aprono le porte alle assistenti sessuali, ma molte sì, anche tra quelle religiose. Non solo: a Berlino, il servizio sociale psichiatrico ha autorizzato (e quindi messo a carico del servizio pubblico) alcuni incontri di Nina de Vries con un uomo cieco e psichicamente disabile.

25 gennaio 2013. Burocrazia
All’insegna dello slogan "meno amministrazione, più posti di lavoro”, l’Europa nel 2007 ha lanciato un programma di semplificazione degli oneri burocratici (che pesano dall’1,5% al 7% del Pil dei paesi europei). L’obiettivo, per il 2012, era di ridurre tale peso del 25% e complessivamente pare che il risultato sia stato raggiunto. Ne ha parlato anche il "Sole24ore”, ma ciò che colpisce sono i nomi dei programmi adottati. Si passa infatti dallo speranzoso "Ensemble Simplifions” (insieme semplifichiamo) della Francia all’esplicativo "Better regulation: make life as simple as possible” (migliore regolamentazione: rendere la vita il più semplice possibile) della Gran Bretagna. Decisamente sono però i belgi ad aver scelto il nome più azzeccato e inevitabilmente ironico. Il programma che già tra il 2003 e il 2007 aveva permesso di eliminare o semplificare quasi 400 leggi tra il livello regionale e federale e che nello stesso periodo aveva gestito oltre 20.000 segnalazioni non poteva che chiamarsi così: "Kafka Point”.

25 gennaio 2013. Morire di carcere
Un detenuto marocchino di 56 anni, ospitato da settembre nella sezione "protetti” del carcere di Terni, si è impiccato legando il lenzuolo alla grata che chiude la finestra della cella. È il dodicesimo morto in carcere, il terzo per suicidio, dall’inizio dell’anno. (Ristretti Orizzonti)

26 gennaio 2013. Ciò che Israele vuole
All’indomani delle elezioni, Gideon Levy interpreta con pessimismo i risultati che a suo avviso rivelano però molto chiaramente ciò che Israele vuole. Un candidato palesemente non politico, giornalista e presentatore televisivo che raramente affronta temi politici è risultato il vincitore delle elezioni meno politiche mai tenutesi in Israele. D’altra parte una campagna elettorale fatta di "Un po’ di tutto e molto di niente” non poteva che portare a un risultato di questo tipo. Dai risultati Levy trae una conclusione chiara: Israele non vuole niente, solo essere lasciato in pace. "Gli elettori vogliono una vita tranquilla, buona, pacifica e borghese”, e tutto il resto all’inferno! Lapid, il vincitore, rappresenta precisamente questa attitudine: un bell’uomo, ben vestito, ben sposato e che parla bene, che vive nel quartiere giusto e guida la Jeep giusta, che non è un estremista, che sta lontano dai temi scottanti e "divisivi”, proprio come piace agli israeliani, denuncia Levy.
"Let us Live in Peace” era anche lo slogan del partito sionista alle elezioni del 1951. E così hanno chiesto anche molti israeliani lo scorso martedì: lasciateci vivere in questa terra senza gli arabi e gli ebrei haredim (ultra-ortodossi), senza guerre e attentati, senza il mondo e le sue prediche. Questo, conclude Levy, è puro escapismo. "Martedì Israele ha dichiarato la sua evasione dalla realtà”. (haaretz.com)
28 gennaio 2013. Biografia terapeutica
All’ospedale Louis Pasteur, a Chartres, dal 2007 è in corso un esperimento. Il reparto di oncologia propone ai suoi pazienti di scrivere la storia della loro vita. Ad accompagnarli è Valéria Milewski, che prima scriveva per il teatro. L’idea nasce da una massima, scarabocchiata sul tavolo dell’ufficio di Valéria: "Quando non sai dove stai andando, guarda da dove vieni”.
Dopo averci pensato per un po’, è stata lei a presentare il progetto. Le hanno risposto: "Non abbiamo soldi, ma lo facciamo”. Ovviamente il lavoro di scrittura dei pazienti è sottoposto alla pressione del tempo. C’è chi, come Gilles e Clarisse-Andrée, hanno riempito diversi quaderni; altri non sono andati oltre qualche pagina. Benjamin Leclercq, l’autore dell’articolo, spiega che non si tratta di un testamento. Gli "autori” non menzionano la morte. La stessa malattia occupa poco spazio, non si tratta di scavare nella sofferenza o di fare della psicanalisi. Clarisse-Andrée, 49 anni, ha scoperto di essere malata in Francia, lontana dal suo paese e dopo un’ospedalizzazione urgente si è vista costretta a rimanere lì. Lei, per esempio, ha deciso di raccontare dei problemi del suo paese, la Repubblica Centroafricana. (lemonde.fr)

29 gennaio 2013. Crisi: l’Emilia Romagna
Dal 2007 un’azienda metalmeccanica su sei ha chiuso i battenti lungo la via Emilia. Se si parla di imprese artigiane la quota sale a una su quattro. Quasi un lavoratore metalmeccanico su tre sta facendo ricorso a un ammortizzatore sociale. (Il sole 24 ore)

30 gennaio 2013. Autismo
Nel 1997 nel Regno Unito venne condotto uno studio sulle famiglie con figli autistici. Il risultato fu piuttosto curioso: il 12,5% dei padri di bambini autistici erano tecnici o ingegneri e il 21,2% dei nonni aveva svolto lavori tecnici. Nel numero di gennaio de "Le scienze”, Simon Baron-Cohen, l’autore di quella ricerca e oggi direttore del centro di ricerca sull’autismo a Cambridge, spiega che già allora non credette alla coincidenza e si convinse che ci fosse un legame tra i geni che contribuiscono all’insorgere dell’autismo e quelli responsabili di un’attitudine tecnica. Le probabilità di sviluppare l’autismo sarebbero rafforzate da un fenomeno noto come "accoppiamento assortativo” (per cui scegliamo chi ci è simile), che sarebbe alla base della persistenza di questa patologia nella popolazione. Di qui la spiegazione di certe ossessioni degli autistici per le "sistematizzazioni”. Baron-Cohen sta anche studiando perché ci siano più autistici maschi che femmine (quattro a uno; addirittura nove a uno nel caso della sindrome di Asperger) e in base alle ricerche condotte finora pare che uno dei fattori responsabili (dell’autismo, ma anche della "mente tecnologica”) sia l’alto livello di testosterone nel feto. (Le Scienze)