Vivo a Genova da quasi dieci anni. E ci vivo bene. La città è bella, piena di storia e di cultura. E poi tutti dicono che è molto migliorata. Dal 1992 quando la città si è affacciata al Porto Antico, seguendo una luminosa intuizione di Renzo Piano, e poi nel 2004 quando è stata "capitale europea della cultura”. Ci sono stati anche i momenti "neri”, traumi urbani, come il G8 nel 2001 o l’alluvione del 4 novembre dell’anno scorso. Ferite che si rimarginano lentamente. Ma la domenica ci sono sempre code per entrare all’acquario e per le mostre a Palazzo Ducale arriva gente da tutto il paese e anche dall’estero. Genova non ha mai avuto e non avrà forse mai una vera vocazione turistica, come l’antica rivale Venezia, ma i flussi di turisti sono destinati a crescere. C’è anche un settore high-tech, ristretto ma qualificatissimo, e poi centri di ricerca importanti. Genova potrebbe attrarre molte energie nuove, non solo pensionati come me.
Eppure, la litania ricorrente nei discorsi dei genovesi recita immancabilmente il coro del "declino”, anche il cardinale Bagnasco ha aggiunto recentemente al coro la sua voce autorevole.
Certo, il dato è innegabile. Rispetto agli anni 50 e 60, la crisi della grande industria pesante ha lasciato un vuoto difficile da colmare. Combinato al declino industriale, il declino demografico. Nell’ultimo mezzo secolo la città ha perso più di 200 mila abitanti, un calo che sarebbe stato anche maggiore se, negli ultimi vent’anni, non fossero arrivati tanti nuovi immigrati. Il problema non è soltanto che da cinquant’anni nascono pochi bambini e quindi ci sono pochi giovani. È che molti giovani, soprattutto tra quelli più istruiti, se ne vanno altrove, soprattutto a Milano, ma anche all’estero e pochi tornano prima di diventare vecchi.
Il problema esiste. La popolazione invecchia. Ma vorrei suggerire una pista di riflessione diversa, ribaltando un po’ i termini del discorso. L’invecchiamento della popolazione è un dato di fatto, ma anche un’opportunità. In fondo, è un processo che a Genova è andato più avanti che altrove, ma riguarda tutto il mondo avanzato, dall’America all’Europa, al Giappone. Da questo punto di vista Genova non è il fanalino di coda, ma è l’avanguardia di un processo di dimensioni gigantesche che, se non succedono cataclismi biblici, è destinato, prima o poi, a coinvolgere le società umane nel loro complesso. Queste saranno sempre più società con elevate quote di anziani e con ridotte schiere di bambini e di giovani. L’America meridionale e l’Africa sono ancora lontane da questo scenario, ma la Cina, ad esempio, vi si avvicina rapidamente. Questa constatazione può indurre a meste riflessioni: è più bello essere circondati da bambini e da giovani che non da teste grigie e bianche, alcune malferme e incamminate verso la fine. Ma bisogna arrendersi all’evidenza, anche quando non sembra desiderabile.
Finora, le nostre società hanno affrontato questa trasformazione epocale tamponando le falle. Sia con misure economiche, dovendo giocoforza riformare i sistemi pensionistici, sia adeguando faticosamente le strutture assistenziali e sanitarie a una popolazione sempre più anziana. I risultati non sono esaltanti, ma probabilmente, in un’ottica di breve periodo, non c’era altro da fare. Finora questa "grande trasformazione” nella struttura demografica non ha ancora inciso nelle strutture abitative nelle quali si svolge la vita quotidiana della gente.
O
gni famiglia e ogni individuo ha cercato di far fronte all’invecchiamento coi propri mezzi: molti vecchi vivono da soli o in coppia, possibilmente nel vicinato dei propri figli o figlie (se ci sono), altri vivono insieme nella stessa casa, ospiti dei figli (soprattutto i vedovi e le vedove), altri ancora sono affidati alle cure di una badante e, infine, altri vivono nelle case di riposo, nelle migliaia di "villa serena” sparse sul territorio. In prospettiva, queste quattro soluzioni risulteranno inadeguate o insoddisfacenti in società che si avviano ad avere un quarto della popolazione che ha superato i 65 anni.

Primo. Le coppie anziane che vivono da sole reggono fino a quando almeno uno dei due coniugi è sufficientemente in gamba da poter accudire l’altro. I guai incominciano quando l’autonomia si riduce per entrambi per poi venir meno del tutto. Non è, spesso, una vita felice. Talvolta si può fare affidamento sui vicini. Ma almeno non "si pesa” sui figli che "devono fare la loro vita”. Il "peso” resta comunque elevato: ...[continua]

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