9 aprile 2010. Delazioni
A Turate, comune leghista in provincia di Como, è stato aperto un ufficio dove è possibile denunciare, anche in forma anonima, la presenza di immigrati clandestini in paese. Lo "sportello delazioni” resta aperto per due ore ogni giovedì.

10 aprile 2010. Precari
In rete i siti e i blog dedicati ai precari e spesso creati dai precari stessi si moltiplicano. Ora c’è pure l’anagrafe dei precari (www.anagrafeprecari. it), dedicata agli insegnanti, che invita a iscriversi al motto "Contiamoci. Perché contiamo!”, dove ogni giorno qualcuno si aggiunge, da Paola "precaria nella scuola dell’infanzia da 10 anni”, ad Anna "precaria da tre anni in matematica applicata”; c’è anche chi di anno in anno rinnova la propria iscrizione come Bianca: "Io mi iscrivo di nuovo!!! Sono sempre precaria!!! Ah dimenticavo, con il 2010 fanno 18 anni di precariato!!!”. Il quadro è drammatico e c’è poca voglia di ridere. Chi invece ha voglia di scherzare, nonostante tutto, sono i precari che se la sono presa con uno spot di Intesa San Paolo lanciata ai primi di marzo e che ora pare sia stata ritirata, con tanto di scuse del responsabile Pubblicità e Web.Alcuni ricercatori infatti non si sono limitati a aprire un gruppo facebook di protesta ("Contro lo spot sul Ricercatore di Intesa San Paolo”), hanno pure girato uno spot che fa il verso a quello della banca, solo che in questo le cose vanno come vanno davvero e così il ricercatore che dall’America era tornato al Sud Italia per procedere con le sue ricerche, nell’ultima scena ha di nuovo la valigia in mano. Non ultimo perché con un contratto da ricercatore la banca non gli ha concesso il mututo.

14 aprile 2010. Uno ogni due giorni
Salgono a 18 i detenuti suicidi da inizio anno (57 in totale i morti in carcere). Con la morte di Daniele Bellante, 31 anni, avvenuta la scorsa notte nel carcere di Rebibbia, salgono a 18 il totale dei detenuti suicidi da inizio anno. Nel carcere di Rebibbia, in 8 anni, sono morti ben 38 detenuti, di cui 20 per suicidio. E proprio oggi abbiamo avuto notizia di un altro decesso, avvenuto nel carcere di Alba lo scorso 24 marzo. Francesco Iannuzzi, 40 anni, è stato ritrovato senza vita in cella. Le cause della morte sono per ora ignote e al riguardo è in corso un’indagine. Sale così a 57 il totale delle morti in carcere nel 2010, uno ogni due giorni. Per quanto riguarda la "catalogazione” delle morti come suicidi -alla luce delle diverse cifre che vengono diffuse in queste settimane- è necessaria una precisazione: l’impiccagione è indice certo della volontà suicida (riguarda 15 dei 18 casi), mentre l’inalazione del gas introduce un elemento di dubbio riguardo all’intenzione di togliersi la vita. Molto più spesso l’intenzione era quella di "sballarsi”, utilizzando il butano delle bombolette da camping come sostanza stupefacente (pratica piuttosto diffusa tra i detenuti) e, accidentalmente, l’assunzione del gas causa un malore mortale (a nostro parere, questa è la dinamica che ha portato alla morte di Carmine B., lo scorso 7 aprile nel carcere di Benevento. Infatti non lo abbiamo incluso tra i suicidi bensì tra i morti per "cause da accertare”). E’ vero che anche il gas può diventare uno "strumento” per suicidarsi: in questi casi non viene rilasciato nell’ambiente della cella ma all’interno di un sacchetto di plastica (quelli usati per la raccolta dell’immondizia), dove poi il detenuto infila la testa stringendoselo intorno al collo (a volte anche con un legaccio). In questo modo prima sviene per effetto del gas e poi muore asfissiato. Quindi, se il detenuto viene ritrovato con il sacchetto infilato in testa, è ragionevolmente plausibile una intenzione suicida. Infine una nota per quanto riguarda il "conteggio” complessivo dei detenuti morti: le cifre diffuse dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono sempre più contenute rispetto alle nostre e la differenza è data dal numero di quei detenuti che, dopo aver tentato il suicidio (o accusato un malore) in cella, vengono soccorsi ancora in vita, ma muoiono durante il trasporto all’Ospedale, o anche dopo il ricovero (come nel caso di Stefano Cucchi). Per il Dap non si tratta di "morti in carcere”, visto che sono avvenute fuori dal muro di cinta degli Istituti di Pena, per noi si tratta di persone "morte di carcere”, perché comunque la "catena degli eventi” che ne ha determinato il decesso è iniziata in cella. (Redazione "Ristretti Orizzonti”)  

16 aprile 2010. Magazine gay in Marocco
E’ uscita una nuova rivista in Marocco, si chiama Mithly, che in arabo significa insieme "gay” e "come me”. La diffusione è limitata: solo 200 copie, stampate a Rabat in semiclandestinità (l’articolo 489 del Codice penale punisce da sei mesi a tre anni di carcere gli atti omosessuali). Il sito però vanta ben altri numeri. All’origine del progetto, sponsorizzato dall’Ue, c’è Samir Bargachi, coordinatore del Kif- Kif, associazione per i diritti civili degli omosessuali in Marocco. Nel sommario della rivista: coming-out, giornata mondiale della donna, testi di critica letteraria, notizie e un editoriale su un progetto di islamizzazione previsto dal partito Pjd (Giustizia e Sviluppo). A fine marzo c’era stata una campagna stampa di Attajdid, giornale del partito islamico, contro la presenza di Elton John a un festival di musica a Rabat, considerato il segno di un "complotto” per omosessualizzare il Marocco. Adesso l’apertura della rivista dei gay. Il vice presidente del Mouvement unicité et réforme Omar benAhmed, ha esortato il governo a recidere le "cellule dormienti” dei gay. (http://lapulcedivoltaire.blogosfere.it)  

16 aprile 2010. Avvocati a prezzi scontati
Avvocati Point, un pool di professionisti esperti in cause di separazione, sono stati accusati di aver leso dignità e decoro della categoria per aver proposto e pubblicizzato su un quotidiano locale una tariffa vantaggiosa, 612 euro (Iva inclusa), per l’assistenza in cause di separazione consensuale e divorzio. Il risultato è stato che l’Ordine degli avvocati di Monza li ha sospesi tutti per due mesi. (www.avvocatipoint.it)  

20 aprile 2010. Da una lettrice
Gentile Redazione "Una Città”, vi scrivo in relazione all’articolo che compare sull’ultimo numero (173) della vostra rivista: "Da italiano torno via...”, in cui un senegalese, Papa Chissokho, residente da ben 19 anni in Italia, dove si è ottimamente inserito, e con lui la famiglia composta dalla moglie e da due figli, si dichiara costretto ad andarsene per l’atteggiamento ostile di cui si sente sempre più circondato a Bergamo, la città in cui vive e lavora. Premetto che io sono sposata da 39 anni con un medico siriano, laureatosi qui a Padova (eravamo compagni di università) città in cui vive e lavora e dunque parlo con cognizione di causa del tema immigrazione. E’ vero che da un po’ di anni l’atteggiamento verso gli "immigrati” (in senso lato) sta diventando più ostile: gli italiani, che si sono sempre dichiarati non razzisti, si stanno misurando finalmente con una realtà sociale multietnica e... scoprono loro malgrado che tra il dire e il fare... c’è di mezzo il mare, per dirla in soldoni. Purtroppo lo strapotere della Lega al nord fa sì che spesso si facciano sentire proprio gli italiani più beceri, quelli che vivono ancora legati alla loro piccola realtà, che tengono ben stretta, timorosi che i nuovi arrivati possano strappare loro qualche brandello della loro "roba”, salvo poi servirsene per i lavori più umili. A loro difesa si può dire che molte mele marce si sono inserite nel gruppo corposo e sorretto da buone intenzioni che negli ultimi anni ha per così dire invaso il nostro Paese, e queste hanno fatto danni notevoli più agli stessi immigrati "onesti” (la maggioranza) che all’Italia, spargendo odi e dando pezze d’appoggio ai gruppi di questi pericolosi neorazzisti. Ciò premesso, vorrei consigliare al nostro amico senegalese di vedere nel suo ritorno nella terra di origine il lato positivo: non è che l’Italia perde risorse, è il Senegal che le guadagna, come è giusto. Inoltre mi auguro che lui e la sua famiglia ritornino ricordando per sempre ciò che l’Italia ha dato loro, cancellando signorilmente gli episodi di rozzo razzismo che al momento sembrano sovrastare nel loro animo tutto il resto. Anche nella famiglia siriana di mio marito le nuove generazioni stanno studiando e lavorando fuori della Siria, ma l’attesa di tutti noi è che ritornino in patria, una volta raggiunta la maturità necessaria e dopo essersi impossessati del know how che l’Europa e l’America sta dando loro. Credo che il nostro amico senegalese e la sua famiglia, sorretto dall’indole pacifica che quel popolo mi sembra possedere, sarà un prezioso trait d’union tra l’Italia e il Senegal. E dunque auguri affettuosi da me e da mio marito a Papa Chissokho e alla sua famiglia!
(Rosaria Zanetel Katrib)  

24 aprile 2010. Il Pulitzer a un sito
L’ultima edizione del Premio Pulitzer si è svolta come tradizione a metà aprile e quest’anno ha incoronato nella categoria "Investigative Reporting” un articolo comparso su Pro.Publica. org, sito no-profit di informazione, interamente on-line. Vincitrice del premio è Cheri Fink, autrice di "The Deadly Choice at Memorial”, lunghissimo e approfondito articolo sulle morti sospette seguite al disastroso uragano Katrina, che nell’agosto del 2005 spazzò via Louisiana e Mississipi.Al centro del mirino c’è il Memorial Medical Center di New Orleans, città simbolo della sciagura, dove già nel 2006 erano state accertate pratiche mediche illegali.
(www.storiedicronaca.it)  

26 aprile 2010. Geriatric World
Cosa accade a un’economia quando la fine della vita delle persone si sposta molto in avanti? I paesi occidentali sono destinati a scoprirlo presto, commenta Joshua E. Keating nell’ultimo numero di Foreign Policy in un articolo dal sottotitolo vagamente minaccioso: "l’invasione dei centenari”. Secondo Lancet, più di metà dei bambini nati a partire nel 2000 in Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Canada, Giappone e Stati Uniti, vivranno più di 100 anni. Non solo, secondo lo U.S. National Institute on Aging, a metà di questo secolo i centenari saranno circa sei milioni, contro i 340.000 di oggi. Gli effetti di un mondo centenario sul piano economico e sociale rischiano di essere monumentali. Non solo per la spesa sanitaria, ma per l’intero modello di vita attuale. Se il XX secolo è stata l’era della redistribuzione del reddito, il XXI potrebbe diventare quella della redistribuzione del lavoro. Non basterà nemmeno limitarsi ad alzare l’età pensionabile, perché all’orizzonte c’è il cosiddetto "problema del principe Carlo”. Come Carlo sta trascorrendo la vita in attesa che la madre ottuagenaria gli lasci il posto, così i lavoratori anziani potrebbero produrre un fenomeno di pericoloso "collo di bottiglia” per le nuove generazioni, costrette dalla longevità dei loro padri a rimanere fuori dal mercato del lavoro fino a un’età avanzata. Come si risolve? Oltre al classico part-time c’è addirittura chi propone di ripensare l’intero svolgimento della carriera lavorativa, ad esempio permettendo di lavorare meno quando si hanno bambini piccoli, dilazionando quegli anni di lavoro a quando si sarà anziani e casomai in casa la nostra presenza non sarà più così apprezzata.
(www.foreignpolicy.com)

27 aprile 2010. Capitale sociale
Secondo una recente ricerca dell’Ires per lo Spi-Cgil volta a quantificare l’attività non retribuita degli anziani, risulta che la cura dei nipoti e l’impegno in associazioni di volontariato in termini economico-monetari assoluti rappresentano l’1,2% del Pil. Gli over 54 impegnati nell’aiuto gratuito sono 4.701.000 e garantiscono oltre 150 milioni di ore lavorative, che rappresentano il 50% dell’intero monte d’aiuto informale.
(Redattore sociale)

28 aprile 2010. Cold case
Ogni tanto i giornali ci narrano la soluzione di un "cold case”. Un omicidio di cui, per circostanze fortuite, si sono conservati i reperti che hanno permesso di effettuare il test del Dna e di consegnare, anche dopo trent’anni, il colpevole alla giustizia. La storia arriva quasi sempre dall’America e suscita un’ammirazione sconfinata per il sistema giudiziario di quel paese. Tolleranza zero, sindaci sceriffi, libertà di girare armati: tutto il ciarpame giuridico-telefilmico ci viene rovesciato addosso. Peccato che dietro la fogliolina del "cold case” risolto si nasconda un’inquietante foresta. Ogni anno, nella sola California, 1000 omicidi restano impuniti. Ogni anno nello stato del Governatore più fico del mondo 1000 assassini la fanno franca. Pensiamo agli ultimi dieci anni: quelli che ci separano dall’undici settembre. Negli Stati Uniti ci sono stati almeno 130 mila omicidi criminali, 50.000 sono senza un colpevole e di questi 12.000 in California. Un risultato sconfortante di fronte a qualche cold case risolto. La situazione è destinata a peggiorare. La California non ha soldi per pagare gli straordinari alla polizia, mentre i tribunali vengono chiusi e il personale licenziato. In compenso il Golden State si ostina a spendere più di 100 milioni di dollari all’anno nella pena capitale. Il braccio della morte di San Quintino trabocca di 700 condannati, ma le esecuzioni sono state 13 in trent’anni e ciascuna è costata almeno 250 milioni di dollari.
(Claudio Giusti)

28 aprile 2010. Ru 486
La discussione sulla RU 486 ha riportato il tema del corpo delle donne sui media nazionali, anche negli appunti dell’ultimo numero di Una Città c’era una nota su questo. Io vorrei parlare del corpo delle donne partendo da un altro punto di vista. Il corpo degli uomini contemporanei vive sostanzialmente come quello dei propri bisnonni, affrontando la moderna tecnologia medica solo nel momento della morte, perché rischia di essere tenuto in stato vegetativo per un tempo illimitato. Certo, c’è la gamba al titanio di Pistorius, ma si tratta di un intervento che riguarda solo la meccanica del corpo. Il corpo delle donne invece è attraversato, trasformato da questa stessa stessa modernità, e abbiamo ben poco in comune con le nostre bisnonne. La pillola permette di programmare il corpo così come un computer; nel momento in cui un test certifica un concepimento ci si può chiedere cosa scegliere; una donna incinta è monitorata e può mettere nell’album la foto di suo figlio al terzo mese di gestazione. Cose inimmaginabili per la mia bisnonna. La maternità è un tema centrale nella vita delle donne, sia che facciano figli sia che non ne facciano, perché la vita degli umani è sempre nata e cresciuta nel corpo delle donne. Oggi non è più così, e non solo perché è possibile essere concepiti in provetta, o cresciuti nel corpo di una donna in coma vegetativo, tenuto in vita per fare da terreno di coltura. L’idea che la vita nasce dentro il corpo delle donne, che la donna incinta è un’unità inscindibile e non l’incubatore di una "Vita” non c’è più, e le donne sono complici di questa svendita. E’ avvenuta una progressiva separazione tra la madre e il feto, rappresentato come un cosmonauta nel suo universo asettico in prima pagina sul National Geographic, senza alcun rapporto con la carne della madre. Ecografia, amniocentesi, test dei villi coriali, diagnosi prenatale, la donna in gravidanza non è una donna incinta ma l’incubatrice del suo bambino (che si chiama già così quando appare la riga blu nel test...), scrutata dentro all’utero, tutelata come un’incapace con una guerra preventiva benedetta anche dai pacifisti, fino ad arrivare al 65% di cesarei di Reggio Calabria (il dato è di questi giorni). Si scinde, fin da subito, il "bambino” dalla madre, che di fatto perde il suo status di madre, per guadagnare quello di "genitore”. Oggi si arriva persino a discutere della figura giuridica dell’embrione, e non stupisce. Ovvero, la donna è sempre più decorporeizzata. Tessere la propria vita, la propria immaginazione, i propri sogni, i propri riferimenti simbolici da decorporeizzata ha delle conseguenze e personalmente penso che siano conseguenze negative. Chiediamoci qual è la strada che ha portato da "Il corpo è mio e lo gestisco io” alla figura giuridica dell’embrione e al 65% di cesarei di Reggio Calabria. E chiediamoci anche dove sia lo scandalo, se lo scopo condiviso è tutelare "la Vita”. Chiediamoci cos’è questa Vita con la V maiuscola, quantomeno astratta. Non sono nostalgica dei bei tempi di una volta, e sono molto critica nei confronti di tanto "naturalismo” che gira sull’argomento. Non credo nella difesa del "naturale” in quanto tale, perché mi sembra una parola priva di significato, e non mi interessano i pannolini lavabili (si fabbricassero i biodegradabili). Mi interessa la questione del corpo femminile come avamposto della rivoluzione che la tecnologia sta operando da trent’anni a questa parte.
(Marzia Bisognin)  

29 aprile 2010. Errore di campionamento
John Tooby, Co-Direttore del Center for Evolutionary Psychology e professore di Antropologia all’università della California a Santa Barbara, sollecitato da Edge, è intervenuto sulla nube islandese con un’originale chiave di lettura. "Eyjafjallajökull -come lo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano, l’impatto del massacro dei dinosauri nello Yucatan, il terremoto di Lisbona del 1755, la peste nera, o l’elezione di Adolf Hitler - è solo l’ultima dimostrazione del detto di Ming lo Spietato: se tu avessi saputo ogni cosa sulla vera natura dell’universo, l’avresti tenuta nascosta con terrore”. Tooby polemizza con la tendenza a "idealizzare inconsciamente il nostro universo come gentile, stabile e provvidenziale - un universo dove l’equilibrio benevolo della natura avrebbe regnato se solo ci fossimo astenuti dall’usare lampadine ad incandescenza”. La dura realtà è ben altra e il nostro problema, conclude Tooby, è quello che gli statistici chiamano errore di campionamento. In sostanza la nostra esperienza è troppo limitata per fare deduzioni e previsioni sulla realtà che ci circonda. Questo però significa che c’è poco da star tranquilli perché il presente ci dice poco sul futuro. In fondo siamo ancora in attesa della prossima eruzione del supervulcano dello Yellowstone, che se sarà come l’ultima o la precedente, verosimilmente seppellirà il Nord America sotto la cenere, con conseguenze imprevedibili per la stessa civiltà industriale.
(http://edge.org)

30 aprile 2010. Dov’è finita la busta arancione?
L’anno scorso, il ministro Sacconi ha annunciato in due occasioni che entro il 2010 l’Inps avrebbe mandato a ogni contribuente una "busta arancione” con un estratto conto sullo stato dei suoi pagamenti previdenziali. Sull’esempio della Svezia, ogni italiano avrebbe conosciuto le proiezioni riguardo alla pensione che può aspettarsi a fine carriera. Quest’anno l’Inps ha smentito la promessa: nessuna busta, nessuna informazione. Cosa ci fa pensare tutto ciò? Come mai si è preferito non mantenere la promessa? Forse perché è meglio che molti italiani non si rendano conto di che welfare li aspetti. Noi una percezione l’abbiamo già, poiché siamo soggetti a un sistema previdenziale fortemente sperequato. Per noi il rapporto tra contributi obbligatori e pensioni si configura come una vera truffa. Un professionista autonomo senza Albo paga più di chiunque altro, per avere poco o niente in cambio. L’Inps sbandiera bilanci in attivo, ma nasconde ai cittadini ciò che fa per ciascuno di loro. In particolare, evita con cura di farlo sapere agli autonomi iscritti alla Gestione Separata, e più in generale, addossa alle giovani generazioni i costi dei privilegi erogati in passato e delle storture attuali, offrendo loro un’assistenza oggi e delle pensioni domani davvero indecorose.
(www.actainrete.org)

2 maggio 2010. Velo
La decisione spetta a un gruppo di meno di venti persone, tra professori, genitori, alunni e rappresentati dell’amministrazione. Ecco chi decide se è lecito o meno il velo islamico nelle scuole spagnole: il consiglio scolastico di ogni istituto. Ovviamente dopo l’ultimo caso di cronaca (Najwa Malha, 16 anni, espulsa dall’istituto Camilo José Cela, a Pozuelo de Alarcón, provincia di Madrid) ci si interroga se per caso non tocchi allo Stato mettere mano a questo problema. "En el interior del edificio no se permitirá el uso de gorras ni deninguna otra prenda que cubra la cabeza”: questo il regolamento della scuola di Najwa. Si parla di "gorras”, "berrette”. Su El Pais Iván Jiménez-Aybar, avvocato di Najwa, sostiene che non era facile prevedere -benché la famiglia di Najwa, che tra l’altro le aveva sconsigliato di mettersi il velo, fosse a conoscenza del regolamento- che il codice scolastico si potesse applicare anche al velo. Dice Jiménez-Aybar : "La comunicazione (con lo studente) diventa difficile quando porta un capo che può nascondere il volto e quindi non ci si rende conto se ci sta guardando, se dorme o se ascolta musica. Non credo che l’uso dell’hiyab possa volontariamente causare problemi in classe o rendere difficile l’interlocuzione”. Francesca Barca
(www.europa451.it)