Mio padre era morto nel 1927 di cancro allo stomaco. Più tardi ci saremmo detti spesso che aveva avuto fortuna.

Nel 1933 io stavo finendo il liceo, l’era nazista stava iniziando.
Di circa 20 alunni ero l’unica ebrea e fino ad allora avevo avuto un buon rapporto con i miei compagni. Essendo brava nei temi in lingua tedesca, e soprattutto in francese e in inglese, ma uno zero in matematica, eravamo costretti ad aiutarci a vicenda. Le cose cambiarono bruscamente dopo il 1933. Proprio le donne e le ragazze furono le prime ad entusiasmarsi per Hitler aderendo alle sue idee ed entrando a far parte del "Bund deutscher Mädl”. Così da un giorno all’altro mi ritrovai completamente isolata, nessuno parlava più con me. Era una situazione ben difficile da sopportare per una ragazzina di 16 anni.
Nel marzo 1933 terminai comunque il liceo e mi iscrissi in un istituto privato per il commercio. Nel frattempo gli ebrei tedeschi avevano iniziato a preoccuparsi. I miei zii, però, avevano combattuto nella prima Guerra Mondiale, entrambi insigniti della più alta croce al merito. Erano convinti tedeschi, loro si dichiaravano cittadini tedeschi di fede ebraica per sottolineare la loro appartenenza allo stato tedesco. Ricordo che avevano appeso l’onorificenza sopra al letto, erano persuasi che quando i nazisti sarebbero arrivati per arrestarli, si sarebbero fermati vedendo quelle croci. Purtroppo si rivelò un calcolo errato.
Ho dunque frequentato quell’anno di istituto per il commercio e poi ho dovuto cercarmi un posto di lavoro. La scuola si era impegnata a trovare un lavoro agli studenti che avessero ottenuto dei buoni voti all’esame. (Nel ’34 in Germania iniziava a diventare difficile trovare un lavoro). Era indubbio che io rientravo fra gli studenti migliori, ma visto che ero certa che non mi avrebbero procurato un lavoro, mi ero interessata già prima, ottenendo un posto di apprendista presso la comunità ebraica che all’epoca aveva ancora un’amministrazione imponente.
Durante la festa di fine corso, il direttore con somma gioia annunciò di aver trovato un posto agli studenti migliori. Quando chiamò il mio nome, mi disse rammaricato di non essere riuscito a trovarmi un lavoro, perché non poteva pretendere da nessun tedesco di dare un lavoro ad una ebrea. Io me l’aspettavo e risposi con orgoglio che non era necessario, perché avevo già trovato un’occupazione. Fu per me una grande soddisfazione.
Il 15 marzo 1934 iniziai a lavorare alla comunità ebraica. Aggiungo che prima mio fratello ed io eravamo entrati a far parte del "Bund deutsch-jüdischer Jugend” (associazione della gioventù ebrea tedesca), nato per raggruppare i giovani e offrire loro la possibilità di una vita collettiva. Il gruppo non era politico, noi avevamo un’unica preoccupazione, vale a dire che ne sarebbe stato di noi.
Il 13 marzo 1934 i nazisti ci assalirono in una baracca, asserendo che stavamo discutendo di testi marxisti che per giunta ci eravamo procurati di contrabbando. Iniziarono a picchiarci. Alfred, nell’intento di proteggermi, perse due denti e ci nascondemmo nella vicina stazione della metropolitana. Arrivai al mio nuovo lavoro piena di lividi e la cosa mi rese subito nota. I miei zii -di cui uno esercitava la patria potestà su di noi- volevano vietarci di partecipare a questi gruppi, ma noi non ubbidimmo. Mio fratello era apprendista nell’ingrosso di confezioni che mio zio aveva a Berlino nella Spandauer Straße. Accanto al lavoro iniziammo a prendere lezioni di lingue straniere, soprattutto inglese (le conoscenze acquisite a scuola non bastavano certo) e in seguito, quando iniziò a prospettarsi l’eventualità di andare verso la Svizzera o l’Italia, mio fratello iniziò a studiare l’italiano. Devo aggiungere che mio fratello era proprio un genio delle lingue e più tardi la cosa gli fu ripetutamente riconosciuta in Italia.
Il gruppo di amici andava assottigliandosi sempre di più. Quasi ogni giorno ce n’era uno che ci salutava o che spariva, prelevato dai nazisti. Vivevamo in una paura costante, preoccupati per quello che stava succedendo, ma anche per cosa ci avrebbe riservato il futuro. I miei zii finirono per riconoscere che bisognava fare qualcosa. E lo zio che aveva il negozio di confezioni e un reddito che gli permetteva di vivere bene si recò in Svizzera con mio fratello per sondare le possibilità di emigrare in quel Paese. Il motto della famiglia era: "Qualunque cosa accada dobbiamo restare insieme”. In Svizzera però si resero pr ...[continua]

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