Siamo onesti: dopo quarant’anni di anomalia, questa sospirata normalità -fatta di alternanza tra lobbies, di efficienza amministrativa e di rispetto assoluto per le regole del mercato- non seduce. Ci si può anche sforzare, ma per un mondo lugubre onestamente amministrato è difficile combattere. E’ un mondo, questo, sottratto definitivamente alla Storia e riconsegnato alla Natura, con le sue leggi oggettive e indiscutibili: il Fondo Monetario Internazionale elevato al rango di un Dio minore, per l’impensabilità di principio di alternative possibili. Il Novecento con i suoi orrori fascisti e stalinisti ha avuto anche questo senso: consumare l’ipotesi di una Storia che fosse storia della salvezza, restituire una umanità infiacchita a delle potenze neutre che la dominano impersonalmente. Rassegnati, chiamiamo tutto questo: dominio della tecnica planetaria. Con una fretta sospetta, questa lezione di realismo è stata fatta propria da tutti, sinistra compresa. E’ sufficiente, per rendersene conto, pensare a come è stata accolta l’atroce vicenda degli indios messicani. La reazione emotiva è stata quella che normalmente si prova di fronte alla notizia di un terremoto devastante in un paese lontano. Quelle esecuzioni sommarie di prigionieri inginocchiati, come la diarrea cronica che devasta la popolazione indigena, sono state vissute, da tutti, come fatti naturali, terribili ma ineluttabili. E non si può certo attribuire la diffusione di questo atteggiamento ad una informazione distorta, perché questa è stata, nei limiti del possibile, precisa e obiettiva nell’indicare le responsabilità occidentali (trattato N.A.F.T.A., deflazione forzata ecc.). Questa passività non è solo indifferenza o egoismo, ma il prodotto di una cultura per certi versi più raffinata, più consapevole. Se la sublime illusione della Storia è finita, l’orrore deve essere infatti reintegrato nell’essere come sua dimensione “naturale”. Volerlo cancellare è un inutile titanismo, generatore forse di orrori peggiori (l’orrore della Storia, del resto, ha un nome per noi ben preciso: non è Auscwhitz, ma il gulag staliniano). Il processo di legittimazione di ciò che un tempo si chiamava l’«imperialismo occidentale» avviene insomma per una via inedita, indirettamente: non più grazie ad una ideologica affermazione del primato spirituale e storico di un particolare tipo umano, ma attraverso il mesto e disincantato riconoscimento della intrascendibilità del presente (della sua «naturalità»), di cui, non senza macabra ironia, si sanno peraltro indicare spietatamente tutti i limiti. Il modello insomma è insuperabile, si tratta semmai di renderlo «sostenibile» La questione degli indios diviene così, nel migliore dei casi, una questione «ecologica», la loro insurrezione qualcosa di analogo ai periodici incendi che devastano i grandi parchi naturali e, a proposito dei quali, si discute se sia necessario intervenire o meno. Ma, a dispetto di tanto disincanto, resta anche, come fatto altrettanto naturale e insuperabile, lo sguardo disgustato del piccolo Jude, spaventapasseri vivente, che, avendo concesso, per una volta soltanto, agli uccellini la possibilità di sfamarsi, viene picchiato e licenziato dall’inflessibile padrone. “La logica della natura era per lui troppo ripugnante per poterla prendere in considerazione” (Thomas Hardy, Jude l’oscuro). E’ uno sguardo, quello di Jude, perdente. A causa di questa ybris, Jude diventerà lo zimbello della Natura, l’oggetto della sua vendetta infinita. Non si può infatti anteporre realisticamente il diritto assoluto della creatura -che si tratti di un indios zapatista o di un uccellino affamato, poco cambia- alla necessità oggettiva del sistema. Soprattutto in una epoca in cui, come ricorda Hardy, gli altari delle chiese del Nord Wessex sono desolatamente disertati dal divino. Non si può. Ma l’impotenza, la oggettiva necessità, non è ragione se non per la natura immortale e ciclica. Chi muore, fin dall’inizio, è in un’altra luce. Ha compiti limitati e oggettivamente assurdi. Può permettersi il lusso di una certa ottusità, può anche, insensatamente, porre all’ordine del giorno come questione centrale e inderogabile la fame dell’uccellino e la diarrea dell’indios. Può, infine, senza astio, lasciare che siano altri -più zelanti nel servire ciò che non chiede affatto di essere servito- ad assumersi il compito di onorare, “com’usa / Per antica viltà l’umana gente”, il carattere sistemico, globale ed interdipendente di questa neutra violenza.
Rocco Ronchi