Sembra proprio che stiamo attraversando un periodo difficile, una stretta della nostra storia. Soltanto un momento, una fase di passaggio, per ritornare ancora a quel che eravamo, oppure si tratta di una crisi che ci lascierà diversi? Disagio e malessere generico o qualcosa di più? E’ possibile ricavare qualcosa di positivo da questa crisi? Forse sì: è come un momento di verità in cui ci stiamo rivelando per quel che realmente eravamo; quell’uomo che Erikson aveva diagnosticato: “Questo mondo delle macchine fa del proprio meglio per convertirlo in un consumatore idiota, in un allegro egoista, in uno schiavo dell’efficenza, offrendogli ciò che in apparenza egli chiede”. Nessuna meraviglia dunque se ci scopriamo infantili e nevrotici. Prima potevamo anche illuderci pensandoci onesti e civili; la crisi ha rivelato invece l’inconsistenza etica e l’irresponsabilità sociale che ci affliggeva. La malattia mortale della nostra storia, di non aver avuto autentici maestri di morale; né Montaigne, né Kant. E senza etica una società non si mantiene: la pura pragmatica della democrazia si dissolve nelle difficoltà, se non è sorretta da una forte coscienza dei valori. Non sono quindi tanto le esplicite violenze dei razzismi beceri o la criminalità odiosa contro i bambini che fanno paura; potrebbero anche essere la punta dell’iceberg, appena lo sbando appariscente di un vuoto più profondo e diffuso: l’istinto di morte dei naziskin come un sintomo del nostro nulla.
Il vivere civile non si eredita: l’etica è più dell’etologia. Quel che si richiede è invece un’appropriazione personale dei valori trasmessi, non una pura cultura residuale, perché il semplice comportamento democratico abbiamo visto che può nascondere un’inconsistenza umana che, senza nemmeno la dignità tragica del nichilismo, si apre ugualmente allo squallore delle politiche scomposte. Anche se in lega. “E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già come uno schianto, ma come un piagnisteo” (Eliot).
Per spiegare la violenza giovanile emergente si è recentemente anche accusato la produzione cinematografica; ma non sono Blade Runner o Basic Instinct gli imputati pericolosi; basta il puro “funzionare” di una società che produce ricchezza e benessere.
Del resto anche le grandi istituzioni dello Stato non possono sostituire il primato dell’etica; non producono uomini. La Somalia certamente dimostra l’indispensabilità di un potere ordinato, senza il quale non si aprono maggiori spazi di libertà, ma soltanto la violenza dannata dei prepotenti; ma anche uno Stato forte -Jugoslavia insegna- non sembra proprio che abbia maturato un’effettiva coscienza di solidarietà sociale. L’uomo senza qualità dell’Occidente e l’uomo nuovo di altre culture nascondevano oltre le apparenze della pratica civile, consumista o obbediente, una inconsistenza etica disponibilissima all’istinto di morte.
Se dunque c’è qualcosa di positivo che possiamo ricavare dalla crisi attuale è proprio l’evidenziarsi del dilemma di fondo dell’uomo che deve scegliere tra istinto di morte e impegno per i valori. Si vede così che l’alternativa radicale dell’uomo non è quella greca tra mito e logos, ma quella ebraica tra amore e morte. E tra questi due poli dell’esistenza non c’è terra di nessuno. La marcia della pace del prossimo dicembre a Sarajevo, è la coraggiosa affermazione della forza della ragione proprio là dove si uccide e si muore. Dove sembra che dominino le ragioni della forza.
Sergio Sala