Niente ci è stato e ci è più distante degli “indiani” d’America. Una distanza che non è dovuta solo al fatto che, nella cultura occidentale, i popoli tribali americani sono sempre stati presentati con stereotipi (dal “buon selvaggio” al “selvaggio” per antonomasia), quanto al fatto che essi sono sempre stati “altri” per noi. Tale loro alterità, pur riconosciuta, non la si è tuttavia pensata per ciò che significa. Ci si è invece soffermati sulle esteriorità -i loro pittoreschi modi di vivere e di vestire, le loro strane, a volte crudeli, usanze- o, nel migliore dei casi, si è cercato di andare più a fondo nell’intento di comprendere il loro modo di pensare e di vedere il mondo. In virtù di questi atteggiamenti li si è visti o come fenomeni da baraccone, pittoreschi ma infantili, o come individui onesti, buoni, leali, crudeli, laboriosi, combattivi, né più né meno di noi. Sempre, insomma, l’occidente ha cercato di ridurre l’alterità dei popoli amerindiani alla sua misura. E non avrebbe potuto essere diversamente, viste le caratteristiche universalistiche che fondano e innervano la nostra civiltà. Una civiltà che, per riconoscere ad un essere umano lo statuto di “umanità”, è ricorsa principalmente a due modi di vedere i popoli non europei. Da un lato si è ritenuto che la questione fondamentale fosse la morfologia fisiologica, l’appartenere alla specie “homo sapiens”, per cui tutte le forme di cultura e di socialità altro non sarebbero che tappe di un cammino che, andando dalla barbarie alla civiltà tecnologica, unifica tutti gli umani. Dall’altro si è pensato che la questione principale perché un uomo potesse dirsi “umano” fosse, pur nella diversità delle culture, l’aver sviluppato alcune caratteristiche -dal senso del pudore alla scrittura, dalle istituzioni politiche alla pietà, dalla religione all’uso di attrezzi elaborati- che, in quanto tali, denotassero la fondamentale non animalità dell’uomo. Questi modi di vedere, apparentemente divergenti, hanno comunque avuto un elemento in comune: in ognuno dei due casi l’essere umano che l’occidentale si trovava di fronte doveva in qualche modo essere il suo specchio. Uno specchio magari deformante, ma pur sempre specchio. Ed è proprio questa funzione che i popoli tribali americani non hanno potuto recitare. I loro modi di vivere, di organizzare il loro stare insieme, di combattersi e di amarsi, di intendere la “religione” e la “politica”, di rappresentare se stessi, in nulla potevano fungere da specchio dei nostri. Ed è proprio perché non potevano essere un nostro specchio che, per poter in qualche modo giustificare i nostri inevitabili rapporti con loro, li si è relegati nei miti, negativi o positivi, e negli stereotipi. E’ a partire da questo che li si è potuti -tranquillamente come con gli animali o “eroicamente” come nell’”epo-pea del West”- uccidere, torturare, sterminare. E’ a partire da questo che oggi li si presenta come i campioni di un vivere ecologicamente ineccepibile, i “custodi della terra” da sostenere ed aiutare nella loro battaglia per conservare le loro terre e per riappropriarsi delle loro culture, o come dei paradossali sopravvissuti che con il loro stesso esistere allietano le vacanze degli americani e ci dimostrano palmarmente quanto sia superiore il nostro modello di vita. Va detto comunque che, in questo modo di raffigurarceli, un “progresso” è stato fatto: finalmente anche gli “indiani” cominciano veramente ad essere una immagine riflessa di noi che li guardiamo. Il fatto è che, preso dal bisogno di specchiarsi, cioè di trovare ovunque la sua immagine, l’unica ritenuta “d’uomo”, l’uomo occidentale ha mancato di fare una considerazione: l’”uomo” non esiste, esistono gli uomini. La diversità delle culture e dei modi di vivere non dimostra soltanto che, al di là del diverso sviluppo della tecnologia o di questo o quell’aspetto del vivere sociale, ogni cultura è relativa, è “altra”, e volerne fare una gerarchia dimostra solo la volontà di potenza che anima chi compie detta operazione. La diversità delle culture dimostra, ma in negativo, soprattutto l’universalità della condizione umana. La cultura, immagine, quintessenza, di sé che gli uomini di un dato gruppo proiettano al di fuori di loro stessi nel tentativo di dare continuità al loro essere, altro non è che la maschera che gli uomini devono indossare nel tentativo di rapportarsi con la consapevolezza della mortalità e della finitezza che li determina. E’ proprio questa universali ...[continua]

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