1 ottobre 2006
Il “treno più alto del mondo” collega ormai Pechino, capitale dell’impero, a Lhasa, capitale del Tibet. Le autorità cinesi parlano di un avvenire di modernità contrapposto a un passato idealizzato. Il presente è la colonizzazione Han, ormai inarrestabile.

3 ottobre 2006
Un appello a cui ci associamo.
Robert Redeker insegnava filosofia in un liceo della regione di Tolosa. Su Le Figaro del 19 settembre, ha firmato un proprio intervento intitolato: “Di fronte alle intimidazioni islamiste, cosa deve fare il mondo libero?”. Accusato di aver “offeso il Profeta”, Robert Redeker è da allora soggetto a minacce di morte. Come Salman Rushdie, perseguitato per 15 anni su tutto il pianeta. Come Theo Van Gogh, abbattuto come un cane il 2 novembre 2004 in una strada di Amsterdam.
Le minacce di morte, molto precise, contro Robert Redeker, provenienti da organizzazioni legate ad Al-Qaeda, sono state identificate dalla polizia francese e dalla Dst. Sui loro siti Internet, le minacce contro Robert Redeker invitano apertamente a seguire l’esempio dell’assassino di Theo Van Gogh.
Dopo la pubblicazione del suo articolo, la vita di Robert Redeker è precipitata in un incubo. L’ha così descritta in una lettera a un amico : “Non ho più il diritto di stare a casa mia (sui siti che mi condannano a morte, c’è una piantina che dà le indicazioni necessarie a raggiungere la mia abitazione per uccidermi, c’è la mia foto, quella del mio luogo di lavoro, dei numeri di telefono e l’atto che mi condanna). Ma al contempo non sono stato provvisto di un alloggio, così sono costretto a chiedere, due sere qui due sere là... Sono permanentemente sotto la protezione della polizia. Devo annullare tutte le conferenze previste. E le autorità mi obbligano a trasferirmi. Sono un Sdf (senza fissa dimora, Ndt). A questo consegue una situazione demenziale, tutte le spese sono a mio carico, comprese quelle, eventuali, dell’affitto di un mese o due lontani da qui, di due traslochi, le parcelle del notaio, ecc. E’ ben triste. Ho esercitato un diritto costituzionale, e sono stato punito, nel territorio stesso della Repubblica”.
Quale che sia il contenuto dell’articolo di Robert Redeker, si tratta di un attacco estremamente violento alla sovranità nazionale. Una minaccia di morte sul nostro territorio viene formulata in assoluta impunità, e questo è assolutamente inammissibile.
Un pugno di fanatici in questo momento agita delle pretese leggi religiose per mettere in discussione, nel nostro paese, le nostre libertà fondamentali. Questa minaccia si aggiunge alle voci che si possono sentire qui e là dappertutto in Europa sulle “provocazioni”, da evitare per non urtare delle fantomatiche sensibilità straniere.
Mettere il tanga a Paris-Plages (spiagge artificiali lungo la Senna, Ndt) viene sconsigliato, come pure ascoltare Mozart a Berlino o il papa a Ratisbona. Queste voci sono dettate dalla paura, e noi non lo possiamo ammettere. Non più di quanto possiamo ammettere le prime dichiarazioni dell’Snes il sindacato d’insegnanti che si è dissociato da un professione oggi minacciato di morte.
In Europa i tempi stanno ridiventando difficili. Non è il momento di essere vigliacchi. E’ per questo che ci appelliamo solennemente ai poteri pubblici, non solo perché continuino a proteggere, come già fanno, Robert Redeker e i suoi, ma anche perché, compiendo un gesto politico forte, s’impegnino a tutelare il suo status materiale fintanto che è in pericolo, proprio come le stesse autorità inglesi non hanno esitato a fare per tutto il tempo in cui è durato l’affaire Rushdie.
Noi ci appelliamo anche ai rappresentanti di tutte le religioni, e specificamente ai musulmani, perché mettano sotto la loro protezione Robert Redeker, come dovrebbero fare per tutte le persone la cui vita è minacciata. (Alexandre Adler, Laure Adler, Elisabeth Badinter, Pascal Bruckner, Michel Deguy, Raphaël Draï, Roger-Pol Droit, Elisabeth de Fontenay, Alain Finkielkraut, François George, André Glucksmann, Romain Goupil, André Grjebine, Claude Lanzmann et le comité de rédaction de la revue “Les Temps modernes”, Corinne Lepage, Bernard-Henri Lévy, Olivier Rolin, Elisabeth Roudinesco, Guy Sorman, Pierre-André Taguieff, Michel Taubmann et la rédaction de la revue “Le Meilleur des mondes”, Philippe Val, Marc Weitzmann)

4 ottobre 2006
Parlando con un amico abbonato di Roma. Fra comune, provincia, regione e governo centrale la concentrazione di centrosinistra in città è tale che non si trova più nessuno, dai venti ai quaranta, con cui parlare di politica. Sono tutti consulenti di qualcuno per qualcosa. Non hanno tempo.

4 ottobre 2006
Con i vecchi farmaci, le persone affette da schizofrenia stavano altrettanto bene, se non meglio che con i nuovi e più costosi medicinali. Lo studio, pubblicato il 2 ottobre, ha creato non poca sorpresa. I ricercatori erano così sicuri di dimostrare il contrario che sono tornati a controllare i dati per verificare di non aver invertito i risultati.
La ricerca, finanziata dal governo inglese, è il primo studio comparativo su un’ampia gamma di farmaci, vecchi e nuovi. Il dipartimento di salute nazionale aveva commissionato lo studio per verificare se il prezzo dei nuovi farmaci (fino a dieci volte quello dei vecchi) era giustificato. Anche perché c’è stato un incremento sensibile nel loro uso, anche tra i bambini.
La schizofrenia è un grave disordine mentale che colpisce un adulto su cento. E’ caratterizzato da sintomi psicotici come allucinazioni, visioni e disturbi comportamentali.
Lo studio ha suddiviso, a caso, 227 pazienti schizofrenici in due gruppi. Uno è stato trattato con i vecchi farmaci, l’altro con quelli di ultima generazione. I pazienti sono stati seguiti per un intero anno da specialisti ignari del loro gruppo d’appartenenza. La ricerca ha dimostrato che i pazienti trattati coi vecchi farmaci godevano di una qualità della vita leggermente superiore. In sostanza non c’era differenza. Allora perché pagare i nuovi dieci volte di più?
Ma la vera domanda è: come è stato possibile che un’intera classe medica abbia potuto avere un tale abbaglio pensando che queste costose medicine, Zyprexa, Risperdal e Seroquel, fossero migliori?
Peter Jones, psichiatra all’Università di Cambridge, ha cercato l’espressione più corretta per descrivere l’accaduto: non tanto ingannati, bensì sedotti in qualche modo.
Certo, le compagnie farmaceutiche hanno fatto uno straordinario lavoro di marketing. Jones però va oltre: sarebbe scattata una sorta di sanzione morale per i medici che continuavano a prescrivere i farmaci vecchi, mettendoli in uno stato di grave disagio. L’argomento “cosa prescriveresti a tuo figlio?” alla fine è risultato determinante.
Già in passato, alcuni specialisti avevano fatto notare la non differenza in efficacia tra le due classi di farmaci, anche rispetto ai movimenti involontari (uno degli effetti collaterali più gravi dei vecchi farmaci), e tuttavia i roboanti slogan delle case farmaceutiche, che ora non commentano o criticano le modalità dell’indagine, hanno avuto la meglio. Questa storia fa emergere anche l’esistenza di un gap istituzionale. Non si sarebbero dovuti aspettare 10 anni prima di commissionare delle indagini. (Washington Post)

7 ottobre 2006
In onore di Anna Politkovskaia, riportiamo brani tratti da Cecenia. Il disonore russo, Fandango 2003.
In Cecenia l’acqua è molto preziosa. Non perché sia cara, però. Qui l’acqua non ha un prezzo, perché praticamente non c’è, nel senso che la maggior parte del tempo manca del tutto. Quando c’è, è di una qualità talmente pessima che dopo averla annusata e guardata da vicino ti dici che non è il caso di provare nuove esperienze, che la tua pelle vale più di una sensazione passeggera di freschezza. Come regolarsi quando non c’è acqua né rubinetto, come a Grozny, dove tutte le tubazioni sono andare distrutte? Facile: basta trovare una riserva naturale, come un fiume, un lago, uno stagno... Ma questa non è sempre una soluzione possibile in Cecenia. Quando ci si lavora da parecchio tempo, come me, si viene a conoscenza della storia “militare” di ogni bacino, tipo la quantità di cadaveri che ci sono stati gettati dentro, tanto per fare un esempio... E allora che fare?
Allora non ci si lava, anche se la voglia è forte. Anche se il desiderio imperioso di essere puliti vince su tutte le altre emozioni, al punto da far dimenticare ciò che si sa.
Un giorno d’estate ero talmente sporca che mi sono diretta a passo risoluto verso il fiume Sunja, in un sobborgo di Grozny: all’alba, tutto sembrava fresco e pulito. Mi sono chinata, ho raccolto un po’ d’acqua sui palmi delle mani... Ma a metà strada verso il mio viso, le mani si sono fermate... Non passa ora, minuto o secondo senza che le acque del fiume Sunja lavino dei cadaveri... Vuoi che lavino anche te? Vuoi davvero servirti di quest’acqua, vivere spregiudicatamente là dove “tutto è permesso”?
“No”, mi sono detta. “Devo trattenermi. Non devo agire in maniera cinica. E poi non è ancora giunta la mia ora. Non voglio lavarmi con quest’acqua, voglio vivere...”.
Una riflessione del genere, intrisa di humour nero, è tipica della Cecenia, dove vita e morte si intersecano. La grande mietitrice imperversa, è onnipresente e ci si abitua. Non sai mai quanto tempo ti resterà da vivere, quando sei circondata da morti. Chi può dire se le acque del fiume Sunja non laveranno il mio corpo, domani? Così bisogna imparare a prendersi gioco di se stessi e della vita. Non fosse altro che per non diventare pazzi...
Un tempo non riuscivo a capire come facessero i medici legali a fare tranquillamente colazione accanto a un tavolo di dissezione. Ora lo capisco. Sono diventata anch’io capace di bere un tè accanto a un cadavere, sicura che “lui” mi perdonerà: “lui” è originario di questi luoghi e sa perfettamente che se uno non coglie al volo l’occasione di fare colazione (cosa che già di per sé è una chance inaudita), è possibile che non se ne presentino altre. O che la prossima si presenti tra vari giorni.
Ma torniamo all’acqua e alla necessità di conservarsi puliti. Cos’altro c’è, oltre ai bacini naturali? Che alternative ci sono? Cerco di non scivolare nel cinismo, ma è dura.
In compenso i militari ce l’hanno sempre, l’acqua. E gratuita. Arriva loro con le autobotti, e a quanto pare in abbondanza, perché non danno affatto l’impressione di economizzarla. La seconda guerra cecena mi ha insegnato che per lavarsi bisogna andare in una piccola unità militare e fare un piccolo show. L’obiettivo è che i miei ospiti di turno mi invitino a fare una doccia. In genere, non c’è niente di sessuale in un invito del genere. In Cecenia tutti conoscono il valore dell’acqua e sanno che un’offerta così è il più prezioso dei regali, quello che viene davvero dal cuore. Non esiste un gesto analogo nella vita civile: neanche un biglietto per una prima teatrale tanto attesa, neanche una cena nel ristorante più chic, neanche un anello donato dall’innamorato... Niente. Quel bagno in mezzo alla guerra è un momento di felicità massima. E i denti?
I civili non se li lavano. Io raramente. E’ la cosa più difficile. Anche lavandosi presso le unità dell’esercito, uno non si azzarda a sciacquarsi la bocca con quell’acqua. E naturalmente, a nessuno se non ai militari si può chiedere dell’acqua bollita per spazzolarsi e sciacquarsi i denti: è un lusso inimmaginabile. Per troppo tempo dopo ogni pioggia, nella città di Grozny dimenticata da tutti, gli abitanti hanno raccolto l’acqua delle pozzanghere, o quella che debordava dalle canalizzazioni scoppiate, e l’hanno fatta bollire nelle gavette su un fuoco di legna. Merce rara: veniva raccolta goccia a goccia con i cucchiai... Naturalmente a nessuno sarebbe passato per la testa di utilizzare quell’acqua per versarsela sul corpo o spazzolarsi i denti. Era destinata a essere bevuta o a cucinare.
Oggi, in Cecenia, sono molte le bocche senza denti, con le gengive rose dalla paradontosi, consumate dalla guerra. Nella primavera del 2002, un primo gruppo di protesisti dentari concluse uno corso all’Istituto di Medicina di Grozny istituito proprio per alleviare questa catastrofica situazione. Ma nel giro di pochi mesi questi giovani, reclutati in tutta la Cecenia, avevano quasi tutti trovato la morte in una serie di zaciski ad ampio raggio... Ancora un paradosso di questa guerra.

8 ottobre 2006
Abbiamo capito bene? L’America ha deciso solennemente che la tortura non va bene, dopodiché ha deciso che sarà il presidente degli Stati Uniti a decidere cos’è tortura.

9 ottobre 2006
Impossibile sfuggire alla sensazione che questa sia la finanziaria “del pubblico impiego e dei pensionati”, cioè la finanziaria dei tre sindacati e dei due partiti comunisti, fanatici statalisti. Basterebbe girare per Roma dove Forza Nuova chiama alla lotta i giovani precari, i giovani a partita Iva, per capire che qualcosa non va. Cosa c’è nella finanziaria per loro? C’è Visco che li aspetta al varco. Non bastava che il 20 per cento del loro reddito se ne andasse in commercialisti (Rullani in queste pagine proponeva di intervenire proprio su questo) ora dovranno far carte false per evitare il terribile sorteggio, o immergendosi nel nero o fatturando il falso (cioè commettendo un reato grave) per pagare più tasse del dovuto e “rientrare” nello studio di settore. Ci dicono che molti stanno trasferendo le partite Iva in Francia e in Spagna.
Ora, che i tre sindacati e i due partiti comunisti detestino le partite Iva si sapeva. Per loro sono una specie di “minorati”, di “subornati”, che devono capire che il meglio della vita è lavorare sotto padrone con un contratto di trentacinque anni (e il massimo è se il padrone è lo stato). Che di una tale finanziaria siano soddisfatti gli alterglobalisti stupisce: il microimprenditore, l’imprenditore di se stesso, i tre amici associati a tentare di star su un mercato, van bene solo se gli dà i soldi Yunus?

10 ottobre 2006
“Il paziente, 35 anni, era in stato vegetativo persistente da 15 anni. Ultimamente aveva sviluppato una setticemia da piaghe da decubito e polmonite, i reni stavano cedendo e nonostante l’alimentazione artificiale stava perdendo peso. Ora era subentrato un arresto cardiaco. Stava morendo”.
E tuttavia il giovane medico non aveva scelta. I parenti volevano che ogni sforzo fosse fatto per tenerlo in vita. Allora il dottore ha iniziato la respirazione bocca a bocca, si è arrampicato sul letto e gli ha compresso il torace con forza, tentando una rianimazione cardiopolmonare. Il paziente era intubato, gli è stato applicato il defibrillatore, gli è stata iniettata l’adrenalina, elettrodi su tutto il corpo… Dopo 15 minuti, il medico ha annunciato la morte. “Perché sono stato costretto a rompergli le costole? Perché non abbiamo potuto lasciarlo morire in pace?” ha chiesto Daniel Sulmasy, oggi medico internista di New York, frate francescano, ed esperto di bioetica, ricordando la propria esperienza di internato.
Casi come questi non sono rari, tuttavia la questione di chi abbia l’ultima parola -il medico, la famiglia, il rappresentante del paziente- resta irrisolta sia sul piano medico che su quello legale.
Molti medici sono convinti che la loro valutazione sull’opportunità e l’efficacia di una rianimazione cardiopolmonare (Cpr) dovrebbe prevalere. La famiglia invece tende a credere che ci sia sempre la possibilità di mettere in atto una terapia in grado di salvare il paziente. Recentemente, molti ospedali hanno silenziosamente fatto passare alcuni provvedimenti che riconoscono l’autorità finale al medico e non ai familiari.
In genere un “ordine” rappresenta un semaforo verde per lo staff: somministra quella medicina o quella terapia. Ma l’ordine di “non rianimare”, il Dnr (Do not resuscitate) è invece il rosso, dice di non fare qualcosa. Una direttiva di questo tipo è necessaria proprio perché controintuitiva; l’assunto in medicina è che chi va in arresto cardiaco deve essere rianimato. Non importa che i tassi di successo siano bassissimi e che i danni rischino di superare i benefici: per non farlo bisogna avere il permesso.
Inoltre la rianimazione cardiopolmonare (Cpr) non è come l’alimentazione o la respirazione artificiale, che prevedono una certa finestra di tempo per decidere. Il Cpr è una procedura d’emergenza.
I pazienti possono scegliere di non essere rianimati e in genere la loro decisione viene rispettata. Le tensioni nascono quando manca l’ordine di non rianimare, il famigerato Dnr, e i medici si vedono costretti a interpellare i familiari cercando di convincerli che qualsiasi tentativo di rianimazione sarebbe “futile”, termine la cui definizione peraltro è ancora ampiamente dibattuta nelle riviste di medicina e bioetica.
A New York, senza Dnr, il medico è obbligato a rianimare sempre e comunque. Tuttavia Jane Greenlaw, medico esperto di bioetica al Medical Center dell’Università di Rochester, precisa che la decisione sul quando interrompere la rianimazione resta al medico, che può decidere di fermarsi dopo 15 minuti: “E’ finita, ci abbiamo provato”. Un ulteriore tentativo per la famiglia può essere molto importante, anche perché il consenso al Dnr può scatenare alcuni fantasmi, come l’abbandono del proprio caro, con conseguenti sensi di colpa, anche sul piano religioso.
I frequenti malintesi rispetto alla stessa rianimazione cardiopolmonare spesso contribuiscono a rendere più penosi questi momenti. Alcuni studi riportano che il tasso di sopravvivenza di pazienti ospedalizzati sottoposti al Cpr è del 15%, se non inferiore. Tuttavia nel 1996 il New England Journal of Medicine ha denunciato come nelle serie tv americane questo tasso fosse del 67%.
Nel paese si sono moltiplicate le storie di medici che prendevano comunque delle iniziative, assumendo dei codici. Alcuni di questi, limitati al gergo medico, sono diventati pubblici. Tra questi c’è lo “slow code” (raggiungere il capezzale con estrema lentezza), l’“Hollywood code” (in riferimento ai serial tv) o il “light blue code” (un’allusione al codice blu, quello della rianimazione cardiopolmonare).
Come reazione, gli Stati hanno varato leggi ancora più restrittive e gli ospedali nuove direttive etiche. L’obiettivo delle leggi era evidentemente la tutela di dignità e trasparenza anche nelle decisioni di fine vita, oltre che dei medici da eventuali azioni legali. Il risultato è stato che in alcuni ospedali la rianimazione cardiopolmonare viene rimpallata ai tirocinanti e comunque c’è un clima di tensione e paura, specie per chi non ha i soldi per pagarsi un avvocato, come appunto giovani medici e infermieri.
Il dottor Sulmasy del St. Vincent’s Manhattan Hospital ha studiato alcuni casi in cui i familiari del paziente hanno rifiutato il Dnr. Lo stress è risultato pari a quello subito a chi scampa a un incendio. Prima il medico si rivolgeva alla famiglia dicendo: mi dispiace, il vostro caro sta morendo. E la famiglia accettava la decisione e iniziava a confrontarsi con l’irreparabile dolore e lutto.
Secondo il dottor Joseph J. Fins, autore di A Palliative Ethic of Care: Clinical Wisdom at Life’s End”, tutta l’attenzione scatenata dall’ordine di non rianimare è in realtà malposta: il Dnr riguarda gli ultimi 15 minuti della nostra vita. “Invece di parlare di futilità, dovremmo discutere di ciò che è decisamente utile, come alleviare il dolore, dare conforto, affrontare la conclusione della vita”. Questa impostazione della discussione ha illusoriamente trasformato in problemi risolvibili quelli che in verità sono dilemmi insolubili ”. (New York Times)

12 ottobre 2006
L’emergenza rifiuti in Iraq ha raggiunto dimensioni tali da aver cambiato il modo stesso di fornire indicazioni stradali.
A Sadr City, il sobborgo sciita, le condizioni stanno migliorando, ma fino a qualche tempo fa non era inusuale sentirsi dire: “Gira a destra al quarto mucchio di spazzatura”.
Certi giorni Sabah al-Atia chiama casa ogni 10 minuti, per rassicurare la moglie. Del resto, il suo, per quanto malpagato, è uno dei lavori più pericolosi in città: fa lo spazzino. Baghdad è una città dove potrebbe annidarsi una bomba sotto ogni catasta di immondizia. I ribelli infatti nascondono le bombe tra i rifiuti; chi si accorge lo segnala alla polizia, ma non tutti sono così fortunati. La maggior parte dei 500 dipendenti comunali uccisi dal 2005 erano spazzini. “Quando lavoriamo, siamo perennemente in ansia” racconta Sabah al-Atia, 29 anni, che ha iniziato durante il regime di Saddam. “Lavoriamo col cuore in gola”.
Il pericolo legato alla raccolta dei rifiuti è uno dei sintomi più visibili della crisi di Baghdad. La spazzatura è ovunque, specie nei quartieri più pericolosi. La raccolta dei rifiuti ha allungato la lista dei servizi di base (elettricità, acqua, fognature), ormai al collasso dall’inizio dell’invasione americana. Alcuni quartieri sono diventati off-limits. Gli spazzini rifiutano di entrare a Dora, Adhamiya, Jamiya e Ghazaliya.
La maggior parte di questi lavoratori sono sciiti, quelli con meno chance, per via della loro bassa scolarizzazione. Lavorando all’aperto sono facili obiettivi per gli estremisti sunniti. Sabah al-Atia aveva decorato l’interno del furgoncino con immagini di religiosi sciiti, ma ultimamente ne ha fatto piazza pulita.
Al di là dei problemi legati alle violenze, la città è dotata di un servizio assolutamente inadeguato per 6 milioni di abitanti. I 1200 convogli di raccolta impiegati prima della caduta del regime si sono ridotti a 380. Si stima che Baghdad ne necessiterebbe di almeno 1500.
Ola Sami, il cui balcone dà su una discarica, non è più preoccupata del cattivo odore, bensì delle malattie. Il figlio si è ammalato per via delle pessime condizioni igieniche.
L’immondizia ha raggiunto anche i quartieri più ricchi, come Masbah, un tempo sede delle varie ambasciate, oggi invasa da pile di rifiuti accumulati davanti a case lussuose e giardini, divenuti inutilizzabili per via di mosche e zanzare.
Spesso un unico camion dei rifiuti, con un autista e un operatore, copre da 20.000 a 30.000 persone. Troppo poco.
Durante il regime di Saddam Hussein la gente temeva le autorità, ora -spiega Ali Hasan, amministratore locale- vige l’anarchia e nessuno si sente responsabile della pulizia del proprio quartiere.
La libertà ottenuta con la caduta del regime, conclude Hasan, pare sia stata interpretata come “la libertà di lasciare la spazzatura, ciascuno dove gli pare”. Esasperato dall’incuria diffusa, ultimamente aveva assegnato una persona ad ogni contenitore della spazzatura, con l’obbligo di andare casa per casa e portare l’immondizia nel bidone. L’idea ha funzionato fino a quando la polizia ha sequestrato tutti i cassonetti in quanto potenziali contenitori di bombe e materiale esplosivo.
Sono state avviate anche campagne di sensibilizzazione, con manifesti e seminari nelle scuole e nelle moschee, ma in alcune aree l’unica soluzione pare sia la presenza di una forza armata. I quartieri a rischio tornano puliti solo una volta risolto il problema sicurezza. L’ultima rilevazione della campagna ha registrato un dato inquietante: più di 200.000 metri cubi di spazzatura rimossa, all’incirca la capienza dell’aeronave Hindenburg.
(New York Times)

13 ottobre 2006
In India anche questo mese migliaia di “ex intoccabili” si sono convertiti al buddismo, per protesta alle continue discriminazioni. Manifestazioni di massa si sono tenute in tutto il paese, gli organizzatori parlano di 100.000 già convertiti.
La conversione è una questione politica. Non a caso diversi stati indiani hanno varato delle leggi che rendono molto difficile cambiare religione.
Nonostante la discriminazione sia diventata illegale con l’Indipendenza, è ancora largamente praticata. In molti paesi i Dalit -così oggi sono chiamati gli intoccabili- non possono bere l’acqua di una sorgente. In alcune aree i locali dove si serve il tè hanno bicchieri differenti per loro, di modo che le caste superiori non vengano “inquinate” per aver bevuto dallo stesso contenitore, per quanto lavato. All’indomani dello tsunami, nel 2004, in Tamil Nadu, ai superstiti Dalit non è stato permesso di usufruire dell’acqua dei campi allestiti.
Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della conversione del più importante leader Dalit dei tempi moderni, B. R. Ambedkar, il primo a incoraggiare la conversione di massa per sfuggire alle discriminazioni.
Non per tutti la conversione è sinonimo di protesta. Per molti però, è l’unica via di fuga dai lavori umili, tradizionalmente assegnati loro. Il rigido sistema delle caste rende infatti quasi impossibile passare a un lavoro riservato a una casta superiore. Se nelle città tutto questo è pressoché scomparso, nei villaggi i Dalit sono a tutt’oggi costretti a vivere tra i rifiuti e a pulire latrine. (Independent)

13 ottobre 2006
Solita incursione aerea israeliana a Gaza. Sei morti. Miliziani di Hamas e il solito danno collaterale: un bambino.

15 ottobre 2006
Ospedale di Vicenza. Una signora in fila per richiedere la cartella clinica. Ha un locale commerciale, è stata malata, ha fatturato meno, è andata sotto nello studio di settore, è stata sorteggiata, aveva i finanzieri al locale, era disperata.

19 ottobre 2006
Kevin Tillman è entrato nell’esercito con il fratello Pat nel 2002, entrambi hanno prestato servizio in Iraq e Afghanistan. Pat è stato ucciso in Afghanistan il 22 aprile 22, 2004. Kevin è andato in congedo nel 2005.
Il 6 novembre è il compleanno di Pat, le elezioni sono il giorno dopo. Questo mi fa pensare a uno scambio avuto con Pat prima di entrare nell’esercito. Lui parlava dei pericoli legati al firmare delle carte. Di come una volta preso l’impegno, saremmo stati alla mercè della leadership americana e della popolazione americana. Di come avremmo potuto prendere una strada che non era quella che volevamo. Di come combattere da soldati ci avrebbe lasciato senza voce… fino a che non ne fossimo usciti. 
Sono accadute tante cose da quella discussione.
In qualche modo siamo stati mandati a invadere una nazione perché rappresentava una minaccia diretta per il popolo americano, o per il mondo, o perché ospitava dei terroristi, o perché era coinvolta nell’attentato dell’11 settembre, o perché riceveva uranio per la costruzione di armi dal Niger, o aveva laboratori mobili per la produzione di armi, o armi di distruzione di massa, o aveva bisogno di essere liberata, o perché avevamo bisogno di portare la democrazia, o di fermare l’insurrezione, o la guerra civile che noi abbiamo provocato e che non può essere definita guerra civile anche se lo è. Qualcosa del genere insomma…
In qualche modo i nostri leader eletti stavano sovvertendo la legge internazionale e l’umanità allestendo prigioni segrete in giro per il mondo, rapendo segretamente della gente e segretamente trattenendola a tempo indefinito, senza poterli accusare di nulla di preciso, torturandoli. In qualche modo questa esplicita politica della tortura è diventata l’errore di alcune, poche “mele marce” all’interno delle forze armate. In qualche modo, a casa il sostegno ai soldati è diventato avere un bambino di cinque anni che fa uno scarabocchio su una foto con la matita e la manda oltremare, attaccare adesivi sulla macchina, o fare pressioni sul Congresso per un fregio in più nell’elmetto. E’ interessante come un soldato, alla sua terza o quarta missione, dovrebbe interessarsi del disegno di un bambino di cinque anni o di un adesivo sbiadito su una macchina, mentre gli amici gli muoiono attorno; o di un fregio in più sull’elmetto, come se questo potesse proteggerlo quando un Ied (un ordigno esplosivo artigianale) getta il suo veicolo 15 metri in aria e il suo corpo va in pezzi e la pelle si scioglie sul sedile.
In qualche modo, più soldati muoiono e più l’invasione illegale diventa legittima. In qualche modo, si è permesso alla leadership americana, il cui unico credito è aver mentito alla propria gente e aver invaso una nazione illegalmente, di rubare il coraggio, la virtù e l’onore dei suoi soldati impegnati sul campo. 
In qualche modo quelli che qualche decennio fa avevano paura di combattere un’invasione illegale oggi hanno potuto mandare dei soldati a morire per un’invasione illegale iniziata da loro. In qualche modo manipolare il carattere, la virtù e la forza è diventato tollerabile.
In qualche modo approfittare di tragedie e orrori è diventato tollerabile. In qualche modo la morte di decine, se non centinaia, di migliaia di persone è diventata tollerabile. In qualche modo la sovversione della Dichiarazione dei Diritti e della Costituzione è diventata tollerabile. In qualche modo si suppone che la sospensione dell’Habeas Corpus tuteli la sicurezza del Paese. In qualche modo la tortura è diventata tollerabile. In qualche modo la menzogna è diventata tollerabile. In qualche modo la ragione viene scartata in favore di fedi, dogmi, fandonie. In qualche modo la leadership americana è riuscita a creare un mondo più pericoloso. In qualche modo un racconto è più importante della realtà. In qualche modo l’America è diventata un paese che proietta quello che non è e condanna tutto quello che è. In qualche modo, il paese più ragionevole, affidabile e rispettato è diventato uno dei più irrazionali, guerrafondai, temuti e inaffidabili del mondo. In qualche modo l’essere politicamente informato, diligente e scettico è stato rimpiazzato da un atteggiamento di apatia e intenzionale ignoranza. In qualche modo gli stessi incompetenti, narcisisti, senza virtù, vacui, maligni criminali sono ancora al comando di questo paese. In qualche modo tutto questo è tollerato. In qualche modo nessuno può essere ritenuto responsabile di questo. In una democrazia, la politica dei leader è la politica della gente.
Pertanto non scandalizzatevi quando i nostri nipoti seppelliranno gran parte di questa generazione come traditori della patria, del mondo e dell’umanità. Molto probabilmente, verranno a sapere che “in qualche modo” è stata allevata nella paura, insicurezza e indifferenza, lasciando un paese vulnerabile a parassiti sfrenati e incontrastati. 
Fortunatamente questo paese è ancora una democrazia. La gente ha ancora diritto di voto. La gente può ancora agire. Può cominciare il giorno dopo il compleanno di Pat.
Il fratello e amico di Pat Tillman, Kevin Tillman. (www.truthdig.com)

20 ottobre 2006
Negli Stati Uniti, dove circa il 40% della popolazione va regolarmente in chiesa la domenica (e in cui il business dei materiali relativi alla religione -libri, Dvd, audiocassette- è stimabile sui 5 miliardi di dollari) le parrocchie si stanno affidando alle nuove tecnologie per “reclutare” e consolidare la rete dei fedeli. In un paese caratterizzato da una forte mobilità, il problema dell’aggregazione e fidelizzazione dei credenti è all’ordine del giorno.
La socializzazione online offre ai membri della congregazione la possibilità di conoscersi e interagire, rafforzando il legame e minimizzando le tendenze centrifughe. E tuttavia non tutti i pastori sono in grado di costruire uno strumento dalle caratteristiche e potenzialità adeguate.
Entra così in scena MyChurch, tool di social networking religioso, pronto a replicare in luce cristiana i prestigiosi successi di operazioni come quelle di MySpace o Facebook. L’impostazione del servizio è bifronte: da un lato la parrocchia dispone di un proprio spazio dove esporre bollettini, annunciare eventi e pubblicare i profili dei membri e la bacheca con i loro commenti, così che il potenziale nuovo parrocchiano possa farsi un’idea della propria chiesa e comunità, prima di aderire. Dall’altro lato vengono raccolte le schede e i profili personali dei parrocchiani (eventualmente con foto) con gli hobby, gli amici, i blog. Esiste anche la possibilità di attivare un “dating”, alla ricerca di un’anima gemella che sia perfettamente allineata anche sul piano religioso. Senza contare l’equipaggiamento multimediale che permette di metter su un’audio-libreria di sermoni che i fedeli possono consultare. Il servizio si è integrato con Paypal per accettare donazioni online, fondamentale fonte di reddito per le chiese.
(www.apogeonline.com)

21 ottobre 2006
La rivista medica Lancet ha recentemente aggiornato il dato dei circa 100.000 morti iracheni dal marzo 2003 al settembre 2004 in seguito all’invasione del paese. Lo studio, condotto tra il maggio e luglio 2006 (coinvolgendo 47 campioni dislocati nei vari governatorati e composti ciascuno di 40 gruppi familiari per un totale di 12.801 individui), ha stimato in 654.965 il numero di iracheni morti a causa della guerra. Si tratta del 2,5% della popolazione. Accanto alle cause violente, la carenza di acqua e energia elettrica, sistemi fognari inadeguati, un servizio sanitario reso inaccessibile e la fuga di molti operatori del settore
(tutti effetti indiretti della guerra) hanno ugualmente contribuito a mettere a repentaglio la salute della popolazione.
Circa 601.000 decessi sono legati a cause violente. Il tasso di mortalità nel periodo post-invasione è raddoppiato rispetto alla media nazionale; dato che configura l’esistenza di una “emergenza umanitaria”. La ricerca evidenzia inoltre come la principale causa di morte siano i colpi da arma da fuoco; i decessi dovuti agli attacchi aerei sono diminuiti rispetto al 2003-2004; dal 2005 sono invece aumentati quelli causati dall’esplosione di automobili. “Nella guerra del Vietnam hanno perso la vita 3 milioni di persone, nella Repubblica Democratica del Congo il conflitto ha causato 3,8 milioni di morti; si stima inoltre che circa 200.000 persone, su un totale di 800.000, siano morte a Timor Est. Dati recenti parlano di 200.000 decessi in Darfur negli ultimi 31 mesi. Noi valutiamo che in Iraq siano morte circa 655.000 persone -il 2,5% della popolazione. Per quanto tali dati possano essere comuni in tempo di guerra, la combinazione della lunga durata e delle decine di milioni di persone coinvolte ha reso quello iracheno il peggior conflitto internazionale del XXI secolo, e questo dovrebbe costituire una grave preoccupazione per noi tutti”.
(www.thelancet.com)

25 ottobre 2006
Per non dimenticare i crimini del comunismo e la compiacenza della grande maggioranza degli intellettuali italiani.
Ci siamo incontrati all’indomani della soppressione della rivolta ungherese nel caffè Rosati a via Veneto. Nicola Chiaromonte era teso, lo notai subito. Tra gli scrittori e artisti italiani, eccezion fatta per un piccolo gruppo di persone indignate e propense a esprimere la propria indignazione, la maggioranza “progressista” si divertiva a indovinare “quanti dollari fossero stati spesi dall’America per la sovversione ungherese”. Abbiamo cominciato la conversazione dall’Ungheria, ho visto crescere la tensione di Nicola, ho pensato che risorgeva in lui lo spirito della squadriglia di Malraux in Spagna (ne fece parte). All’improvviso entrò nel caffè un celebre scrittore italiano che preferisco non nominare, e domandò se poteva unirsi a noi. Non lo conoscevo di persona, ma lo conosceva bene Nicola, il quale fece cenno di sì ma non fu molto incoraggiante. Appena il celebre scrittore si sedette di fronte a noi, ritenne opportuno ripetere lo slogan comunisteggiante sui “dollari americani a Budapest”. Nicola diventò pallido, lo mandò via in malo modo dal nostro tavolino, e per molto tempo non riuscì a placare la sua agitazione.
Lo guardavo in silenzio; probabilmente in questi lunghi minuti avvenne il coup de foudre al cospetto di una tale solidarietà e sensibilità, più unica che rara allora in Italia. Gustaw Herling.

26 ottobre, 2006
Il Ministero iracheno per l’acqua e le fognature recentemente ha deciso di limitare il proprio nome a “Ministero per le fognature”, avendo ormai rinunciato a risolvere il problema acqua.
Non solo, Rumsfeld (Rums bin Feld) ha annunciato che le truppe americane lasceranno l’Iraq “1/1”, ha dichiarato il conduttore in preda a un’incontenibile gioia qualche giorno fa. La sua faccia tuttavia ha presto cambiato espressione, aveva capito male: non il primo gennaio, l’1/1, bensì “uno alla volta”. Qualche secondo di pausa per fare dei calcoli mentali… ci vorranno circa 600 anni.
Da un mese a questa parte, ogni sera gli iracheni si raccolgono davanti alla tv a guardare ed ascoltare un uomo dall’aspetto bizzarro, con un’enorme parrucca “afro” e degli occhiali a forma di stella che legge le tristi notizie del giorno.
Il programma, dal titolo “Hurry Up, He’s Dead” ha fatto il proprio debutto all’inizio del Ramadan. A condurre il notiziario è Saaed Khalifa.
Questa specie di telegiornale surreale dura 20 minuti e va in onda su Al Sharqiya, un canale satellitare iracheno. Le trasmissioni si concluderanno con la fine del Ramadan, anche se è in discussione la possibilità di trasformarlo in un appuntamento settimanale.
Lo show, che ha eclissato tutti gli altri format, testimonia il macabro umorismo con cui gli iracheni affrontano la loro vita quotidiana, in mezzo al tracollo dei servizi elementari e a un tasso di violenza che nei tre anni di occupazione non ha fatto che crescere.
Del resto, la gente ha bisogno di ridere proprio per sopravvivere alle tragiche condizioni in cui è costretta ad andare avanti, spiega Silvana, una giovane irachena che ogni sera -quando c’è l’elettricità- guarda il programma assieme alla sua famiglia.
Lo show ha un preambolo ambientato nel 2017: gli americani non hanno ancora lasciato il paese e Saeed è l’ultimo iracheno sopravvissuto. La sigla, che parla di come sarebbe meglio essere un gatto randagio piuttosto che un iracheno (“nessuno chiede a un gatto di dov’è, qual è il suo partito, se è arabo, curdo, sunnita o sciita”) ha spopolato: la si sente cantare dai bambini nei cortili; c’è anche in versione suoneria per cellulari.
Il ritornello recita: “Sono l’ultimo iracheno sopravvissuto e ancora non ho una casa”.
Il notiziario comunque prende le mosse dal presente e narra come il Paese di Saaed Khalifa sia caduto in disgrazia a causa di una successione di vicende che hanno portato appunto il conduttore a rimanere l’unico superstite. Lo sceneggiatore, Talib al-Sudani, qualche mese fa ha venduto i diritti a Sharqiya per soli 3700 dollari. Lui ha perso oramai ogni speranza nei propri leader e nella possibilità di tornare a una vita normale. L’esperimento americano per la creazione di una democrazia è nato morto, conclude. L’unica cosa che uno può fare è riderci su. (International Herald Tribune)

27 ottobre 2006
Per la prima volta la legge indiana ha riconosciuto lo stupro matrimoniale, l’abuso sessuale, psicologico o verbale da parte del marito, come un crimine. L’India è un paese in cui le strade sono sicure, ma ogni sei ore una giovane sposa viene bruciata, colpita a morte o portata al suicidio da abusi psicologici. Due terzi delle donne sposate, tra i 15 e i 49 anni, sono state picchiate, stuprate o costrette ad avere rapporti sessuali. Una delle principali cause di violenza contro le donne è legata alla dote. I mariti, o le loro famiglie, possono arrivare ad uccidere se la dote non li soddisfa. L’anno scorso sono stati registrati 6.787 casi di morte per dote, spesso poi addebitate a incidenti domestici. Nonostante una legge del 1983 contro la violenza alle donne, lo stupro era rimasto fino ad oggi un diritto coniugale. Altra novità cruciale è il diritto, per le donne abusate, di continuare a vivere nella casa di famiglia. Spesso infatti le donne non reagivano per non essere cacciate di casa, prive di qualsiasi mezzo di sussistenza. Tribla, originaria dell’India orientale, è morta a centinaia di chilometri da casa, vicino a Delhi, uccisa dal marito per essersi rifiutata di avere un rapporto sessuale col fratello. Dopo il matrimonio non aveva mai più visto la sua famiglia. Si erano trasferiti a Mewat, un’ora da Delhi, un’area dove le donne scarseggiano per via della pratica dell’infanticidio delle figlie femmine. Dopo sei mesi il marito l’ha offerta al fratello che non poteva permettersi una moglie. Al suo rifiuto l’ha portata in un campo e l’ha decapitata con una falce. A scoprire e rendere nota la sua storia è Rishi Kant, militante per i diritti delle donne. La storia di Tribla è simile a quella di migliaia di altre donne. Ogni settimana, nel solo villaggio di Mewat, Kant scopre nuove donne vendute e vittime di abusi.
(The Independent)

30 ottobre 2006
Il nostro redattore è appena tornato dalla Spagna e racconta che il castigliano (terza lingua parlata al mondo, dopo cinese e inglese) in Catalogna lo si inizia a studiare alle primarie come lingua e letteratura straniera (per un 9-10% del monte ore totale). Mentre in California i cartelli stradali sono anche in castigliano, a Barcellona no. Non è un po’ impressionante?