L’imbarazzo che uno come me prova a parlare di Sebastiano Timpanaro deriva principalmente dall’ignoranza del suo lavoro filologico, che è stata la sua principale occupazione. Altri, per fortuna, l’hanno fatto, e in termini altamente ammirativi, tutti sottolineando la sproporzione tra il valore dell’opera e l’assenza di notorietà fuori dell’ambito strettamente disciplinare. Ciò era dovuto al carattere eccezionalmente schivo di Sebastiano, alla sua ripugnanza per ogni forma di pubblicità e mondanità. Un costume di modestia, riservatezza, discrezione che già l’aveva indotto a rinunciare alla carriera universitaria e a qualunque incarico pubblico, e che ha avuto degna conclusione con la sua morte pressoché clandestina.
Ma i miei limiti di preparazione non m’impediscono di ricordare l’uomo e l’amico. La sua intelligenza e passione intellettuale si esplicitavano pienamente anche nei rapporti privati e nella partecipazione al dibattito ideologico-politico. Mi resta però il rincrescimento di non poter dire qualcosa sul rapporto tra la moralità dell’uomo e quella dello studioso. Un rapporto di reciprocità, per cui rigore scientifico e rigore etico fanno tutt’uno: l’onestà intellettuale applicata agli studi è la stessa che vale anche per le scelte politiche, fino ai rapporti interpersonali. E non solo: anche l’oggetto degli studi diventa materia, sostanza di vita.
Dovendo prendere una decisione difficile, mi disse una volta, egli si chiedeva che cosa al suo posto avrebbe fatto Leopardi. Leopardi era diventato come un padre, un fratello maggiore, un amico morto da tempo col quale s’è instaurato un rapporto vitale, di colloquio costante, tale da determinare anche la vita pratica. E’ lo stesso concetto di Epicuro, parafrasato da Renato Serra nella lettera a un amico: ‘’Dobbiamo prediligere una grande anima, e vivere e operare sempre come se quella ci guardasse” (a parte l’“anima”, termine quant’altri mai ostico a Sebastiano). Non avrebbe potuto concepire un biografo di Francesco d’Assisi o un filosofo marxista dediti, che so, allo spaccio di droga o all’usura. O meglio - dato che la separazione tra professione, idee, e vita privata è piuttosto diffusa, se non quasi la regola - ne avrebbe tratto un giudizio senz’altro negativo sul valore propriamente scientifico della loro opera.
Ci eravamo conosciuti attraverso i “Quaderni piacentini”, che avevano acceso in Sebastiano un’immediata simpatia, anzi un vero affetto, quasi come per una persona amata di cui si seguono con trepidazione i passi, le scelte. Deluso dalla sinistra istituzionale, sembrava aver affidato a questa rivista le sue ultime speranze, se non d’una svolta, almeno di una dura resistenza all’involuzione e al conformismo politico e culturale. Non usciva numero della rivista - mi riferisco soprattutto al periodo tra ‘65 e ‘75, all’incirca - cui non seguisse, nel giro di pochissimi giorni, una sua lettera che rivelava la lettura di tutti gli articoli. Una lettura vorace e attentissima, scrupolosa e appassionata.
Erano lunghe lettere, vivacissime, scritte di getto, senza quasi cancellature, a cuore aperto, ma di acuminata intelligenza, dove nulla era detto a caso, senza essere passato al vaglio della riflessione. Non nascondeva i dissensi, che non erano pochi né leggeri. C’erano collaboratori, anche tra i più stretti, che non lo convincevano, con altri era in aperto contrasto. Talora il disaccordo dal merito si estendeva alla forma. Detestava l’esibizionismo, la pomposità, ogni vano ornamento, le civetterie stilistiche, per le quali aveva un orecchio infallibile, ancorché troppo severo. Il suo pensiero e la sua scrittura, senza bisogno di imitare nessuno, erano quelli di un classico.
Scelte e giudizi erano sempre netti, inequivocabili, diffidava delle posizioni ambigue o troppo conciliatorie. Ateo convinto, poteva far suoi i precetti evangelici “Nessuno può servire due padroni” e “Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no”. Forse anche per questo apprezzava la rubrica “da leggere e da non leggere”: non tanto per i giudizi specifici (molti dei libri considerati esulavano dalle sue letture), ma per lo spirito e le intenzioni da cui era nata (e che, secondo me, non aveva saputo seguire con sufficiente coerenza e efficacia, tanto che fu soppressa). Se spesso poteva risultare eccessivo nei “plausi” come nelle “botte”, ciò non derivava da presunzione o capriccio, meno che mai da secondi fini. Non impediva ai sentimenti e anche agli umori di dar sangue e color ...[continua]

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