Il 13 marzo del 1987, nella stiva di una nave del porto di Ravenna, perdevano la vita 13 operai. All’indomani dell’incidente Pietro Marcenaro si recò a Ravenna e ricostruì la storia di quei giovani operai, i diversi tragitti che li avevano portati a quell’appuntamento fatale. I brani che seguono, inediti, fanno parte di tale lavoro rimasto incompiuto. Dieci anni dopo Pietro Marcenaro è tornato a Bertinoro, nell’entroterra forlivese, da dove provenivano cinque delle vittime, per tenere in consiglio comunale, alla presenza dei familiari, la commemorazione.

Alessandro Centioni
Silvano Centioni era sbalordito, quasi incantato dall’atmosfera irreale che si respirava in quel luogo dove tutto appariva diverso e nulla impossibile. Per quanto fosse in cuor suo preparato all’eventualità di uno spettacolo straordinario, la realtà superava di gran lunga immaginazione ed aspettative e doveva riconoscere che rare volte, nel corso della sua vita, gli era capitato di essere così emozionato. Nella grotta, dominata dall’alto dalla statua della Vergine, le grucce e le offerte votive tappezzavano completamente le pareti e documentavano la innumerevole serie delle guarigioni miracolose. Quegli eventi miracolosi, il cui racconto tante volte Centioni aveva ascoltato con un certo scetticismo, erano lì suffragati da tante prove e testimonianze da scuotere il più protervo degli increduli. Poco più in là il canto corale degli infermi che si bagnavano nell’acqua benedetta dava l’impressione che il miracolo fosse ogni momento sul punto di ripetersi e anche il semplice visitatore, mosso solo dalla curiosità e non dalla fede, respirando quell’aura di devozione e di speranza, si sentiva partecipe di un mistero e coinvolto in un’esperienza straordinaria. Chi poteva dire se la Madonna era effettivamente apparsa nel 1858, in quella grotta, a Bernadette Soubirous, come la commissione d’inchiesta nominata dal vescovo di Tarbes aveva stabilito ed il papa definitivamente confermato? Come fossero andate realmente le cose più di un secolo prima a Centioni non importava granché: la sua attenzione era tutta rivolta a scrutare e a fissare nella memoria il miracolo che ora finalmente poteva vedere con i suoi occhi e mostrare alla moglie ed ai figli -di quell’inesausto pellegrinaggio di persone di tutte le nazionalità, le età e le condizioni sociali, di quell’avvenimento unico al mondo che solo lì era possibile ammirare. Al confronto Loreto, luogo nostrano di culto e di pellegrini che per Centioni -nato e vissuto a lungo a Macerata prima di emigrare a Bertinoro- costituiva un termine spontaneo di paragone, sembrava davvero una cosa piccola e modesta. Centioni era sinceramente rallegrato di essersi finalmente deciso a quel viaggio a Lourdes con la famiglia e comunicava il suo entusiasmo al resto della comitiva. Di professione camionista, abituato a girare in continuazione tutta l’Europa in lungo e in largo, molte volte, diretto con un carico di frutta o di carne in qualche località del sud-ovest della Francia o dei Paesi Baschi, gli era capitato di passare a pochi chilometri da Lourdes e di provare sempre, leggendo quell’indicazione su un cartello stradale, un desiderio di fermarsi. E’ il richiamo che sempre esercita sui viaggiatori il nome di quei luoghi, a volte non direttamente conosciuti, che si percepiscono come familiari per il ruolo che hanno o hanno avuto nell’educazione, nelle letture o nei discorsi. Ma i tempi e gli obblighi del lavoro non prevedono questo genere di soste per i moderni viaggiatori di mestiere. Da quel desiderio insoddisfatto, da quel richiamo inevaso ma non inascoltato, era nata quella prima, e unica, vacanza straniera. Alessandro, il secondo dei tre figli, aveva allora quindici anni. Durante il viaggio Centioni era stato allegro e aveva parlato in continuazione, mostrando questo e quell’altro e rievocando un’infinità di episodi dei suoi viaggi. Come un operaio è soddisfatto se per caso gli capita di poter mostrare ai figli il posto dove lavora e di far conoscere una parte della sua vita dalla quale essi sono normalmente esclusi, così Centioni aveva esibito quella parte d’Europa come se si fosse trattato di un reparto della sua fabbrica. L’arrivo a destinazione e il grande spettacolo di Lourdes erano stati lo splendido coronamento di quel magnifico viaggio. Quando, dieci giorni dopo la partenza, arrivato a Bertinoro, scaricò bagagli, le tende, i fornelli, le pentole e le piccole bottiglie di acqua benedetta acquistate negli immediati dintorni della grotta, Silvano Centioni era un uomo felice.

Marco Gaudenzi
Intorno alla metà di giugno del 1985 Marco Gaudenzi fermò il suo motore, acquistato il giorno prima, davanti alla terrazza della Casa del Popolo di Bertinoro e si godette compiaciuto gli sguardi di approvazione del gruppo di ragazzi seduti a chiacchierare, come al solito, sul muricciolo. Poche settimane prima, il 25 maggio, aveva compiuto sedici anni e da pochi giorni erano finiti la scuola e gli esami. Non si trattava della solita conclusione di un anno scolastico, ma del termine definitivo -con l’ottenimento del diploma di terza media- della sua breve carriera scolastica. Acquisto della moto e fine del periodo degli studi simboleggiavano bene, insieme, l’uscita dall’adolescenza e l’ingresso definitivo nel mondo degli adulti. Era un punto di svolta nella sua vita che Marco aveva atteso per molto tempo e il cui senso veniva ora sottolineato ed amplificato dalla coincidenza dei due avvenimenti che contribuiva a rendere socialmente visibile un cambiamento di ruolo e di status. In un periodo nel quale la sociologia e la politica spingono avanti fino alla soglia dei trent’anni i confini dell’età giovanile, si può considerare un evento singolare il passaggio all’età adulta di un ragazzo di sedici anni, come avveniva per operai e contadini molto tempo fa. E tuttavia Marco Gaudenzi non era diverso da tanti altri ragazzi di Bertinoro che, come lui, finita la scuola dell’obbligo avevano scartato o non avevano neppure preso in considerazione la possibilità di continuare gli studi. Bastava del resto guardare quelli che quel pomeriggio stavano seduti su quel muretto per rendersene conto. Onofrio Piegari lavorava da Ranieri nella zona industriale. Alessandro Centioni -che comunemente gli amici, per la sua precoce calvizie, chiamavano “Pelatina”- andava tutte le settimane avanti e indietro da Prato con un’impresa metalmeccanica. Maurizio Roverelli, quello che parlava sempre in falsetto, era in una falegnameria ad imparare il mestiere. Enzo, che a diciannove anni stava già per prendere moglie, lavorava in porto a Ravenna con le imprese d’appalto delle pulizie delle navi. Giovanni e Mario finita la scuola si erano messi a lavorare come contadini nel podere dei genitori. Insomma la grande maggioranza dei ragazzi della sua età o di qualche anno più grandi lavoravano, e non come operai ma da apprendisti, in cattive condizioni di lavoro, con paghe molto basse ed esposti in ogni momento al rischio di perdere il lavoro. Qualcuno che continuava a studiare c’era anche tra i ragazzi che avevano il loro punto di ritrovo alla Casa del Popolo, ma si trattava davvero di una esigua minoranza. Anzi, rispetto a molti dei suoi amici, che avevano lasciato la scuola in anticipo, Marco poteva almeno dire di avere finito la terza media e di avere raggiunto il diploma. Eppure le famiglie di questi ragazzi non erano particolarmente povere: i genitori erano sì operai e contadini, ma i loro redditi non erano in genere così modesti da costituire un ostacolo insormontabile al proseguimento dello studio dei figli se l’ambiente culturale, le scelte dell’educazione, le strategie individuali e familiari lo avessero considerato un fatto di primaria importanza e non, come sembrava, un obbligo da rimuovere il più rapidamente possibile per costruire, attraverso il lavoro, il proprio futuro. Pochi giorni dopo Marco Gaudenzi partì per Rimini dove un amico di suo padre, proprietario di un albergo sulla riviera, gli aveva procurato un lavoro per l’estate. Andava, come si usava dire tra i suoi amici, a fare la stagione al mare. In cosa consistesse il lavoro per il quale era stato chiamato non lo sapeva con precisione: poteva trattarsi di stare sulla spiaggia ad aprire ombrelloni e sdraio alle signore e a rastrellare la sabbia al mattino e alla sera, oppure di fare il cameriere in un bar, o di lavar piatti in un ristorante. Che fosse una cosa o l’altra per Marco non faceva gran differenza: quello che contava era che per la prima volta avrebbe guadagnato tanti soldi quanti non ne aveva ancora visto in vita sua. Ed era anche la prima volta che gli capitava di vivere e dormire per un certo periodo lontano da casa e dalla famiglia, ed anche questo presentava naturalmente per lui un certo interesse. L’unica cosa che gli dispiaceva era di dover lasciare a Bertinoro la motocicletta appena comprata che suo padre non gli aveva permesso di portare con sé.

Onofrio Piegari
Onofrio sapeva di non avere argomenti e che la sua resistenza sarebbe stata vana. Tuttavia quando sua madre, alle sette come ogni mattina, lo chiamò, non rinunciò a inscenare un debole tentativo di autodifesa: “Ieri sera al Circolo ho fatto tardissimo e non mi sento di alzarmi, vestirmi e correre in fabbrica puntuale per le otto. Oggi ho deciso di non andare a lavorare”. Motivi che per molte persone sono sufficienti a non lavorare mai, per tutta la loro vita, non bastano a volte ad un operaio a giustificare l’assenza dal lavoro per un solo giorno: mezz’ora dopo Onofrio era sulla strada per la Paneghina, la zona industriale di Bertinoro, a pochi passi dalla via Emilia. Era più di un anno che faceva l’apprendista da Ranieri, una piccola azienda metalmeccanica con poco più di dieci dipendenti. Prima a scuola non aveva combinato granché e la sua fine l’aveva vissuta come una liberazione. Avendo ripetuto due classi era arrivato all’età di quindici anni senza aver ottenuto il diploma, ma di questo non gli importava molto. Al massimo, se ne avesse avuto bisogno avrebbe potuto rimediare più tardi con qualche scuola serale, di quelle che in qualche mese permettono di superare l’esame. Nell’idea che aveva cominciato a farsi della vita, come in quelle di molti suoi coetanei, per la scuola non c’era mai stato un gran posto e l’espressione scuola “dell’obbligo” definiva esattamente lo stato d’animo con il quale egli aveva affrontato i suoi studi; prima fossero finiti e prima avrebbe potuto cercarsi un lavoro, che era l’unica cosa veramente importante. Erano idee che aveva in testa fin da bambino. Lavoro, lì nella zona, per molti anni non ne era mancato e Onofrio ne aveva visti tanti giovanotti un po’ più grandi di lui che, senza perdere tempo a scuola e cominciando a lavorare da ragazzi, erano riusciti in fretta a farsi una posizione. Così quando pochi mesi dopo la fine della scuola gli si era presentata l’occasione di un posto da apprendista tornitore, con la prospettiva di diventare dopo qualche anno un operaio specializzato, non aveva avuto dubbi, anche se le condizioni d’impiego non erano certo delle più favorevoli. D’altra parte cosa può pretendere un ragazzino che deve imparare tutto e che sul lavoro è più d’impiccio che di aiuto? Che per insegnargli a lavorare gli diano anche una buona paga? Convinto che bisognava partire dalla gavetta, Onofrio sapeva anche che negli ultimi tempi le cose erano un po’ cambiate e trovare un lavoro non era più così semplice come qualche anno prima. Poteva così ritenersi fortunato per quel posticino trovato ad appena sedici anni, che gli permetteva di partire, piano ma con il passo giusto, senza sprecare altro tempo aspettando chissà cosa prima di cominciare a guadagnare. Se avesse studiato più a lungo forse gli sarebbe capitato di leggere queste righe: “Mi presero e mi fecero vedere quali erano i miei compiti. Mi dissero anche le condizioni del mio impiego: giornata di dieci ore, tutti i giorni del mese comprese le domeniche e le feste, con un giorno di riposo al mese, e un salario di trenta dollari al mese. Non era eccitante. Anni prima nella fabbrica di conserve guadagnavo un dollaro al giorno per una giornata di dieci ore. Mi consolai pensando che la mia capacità di guadagno non era cresciuta con gli anni perché non avevo mai fatto un lavoro specializzato. Ma stavolta era diverso. Cominciavo a lavorare in vista della specializzazione, per un mestiere vero, per una carriera e una fortuna, e per la figlia del sovrintendente. E cominciavo nella maniera giusta -proprio dal principio. Questo il punto. Passavo il carbone ai fuochisti, che lo spalavano nel forno, dove l’energia si trasformava in vapore, che, nella sala motori, si trasformava a sua volta in elettricità, con la quale lavoravano gli elettricisti. Questo passar carbone era veramente il principio primo a meno che il sovrintendente non si mettesse in testa di mandarmi a lavorare nelle miniere da dove si estrae il carbone, al fine di ottenere una comprensione completa della nascita dell’elettricità per le ferrovie urbane. Lavoro! Io che avevo lavorato con gli uomini, scoprivo di non saper nulla del lavoro vero. Giornata di dieci ore! Dovevo passare il carbone per i turni di notte e di giorno, e pur lavorando tutta l’ora di mezzogiorno, mai finivo prima delle otto di sera. In realtà io lavoravo dalle dodici alle tredici ore al giorno e non mi pagavano lo straordinario, come alla fabbrica di conserve. Posso rivelare il segreto anche qui subito. Stavo facendo il lavoro di due uomini. Prima di me un manovale maturo e capace aveva fatto il turno di giorno e un altro bracciante maturo e capace, quello di notte. Avevano una paga di quaranta dollari ciascuno, il sovrintendente, che voleva fare economie nella sua amministrazione, mi aveva convinto a fare lavoro doppio per trenta dollari al mese. Io credevo che volesse fare di me un elettricista. La verità vera è che risparmiava cinquanta dollari al mese nelle spese generali della società.”

Alessandro Centioni
Un milione e cento, un milione e centoventimila lire: questo era il suo salario base dopo ventun anni di lavoro sui camion. Il resto della paga arrivava sotto la voce trasferta, che rappresentava una parte molto importante, equivalente ad almeno la metà della retribuzione globale effettivamente percepita alla fine di ogni mese. Alla fine di giugno, ad esempio, Silvano Centioni aveva ritirato dalla ditta di trasporti per la quale lavorava una cifra di due milioni e settecentomila lire, delle quali un milione e cinquecentocinquantasettemila a titolo di trasferta. Molte cose erano cambiate, negli ultimi dieci anni, nel mondo del trasporto merci su strada. La spinta alla ristrutturazione era venuta da molte direzioni, e tra le molle principali vi era stato il maggior rigore fiscale dello stato nei confronti degli autotrasportatori. Con l’obbiettivo di ridurre l’evasione dell’I.V.A. sulle merci e quella delle imposte dirette erano state introdotte sanzioni molto severe, civili e penali, ai proprietari e agli autisti che circolavano sprovvisti delle regolari bolle di accompagnamento e degli altri documenti di viaggio prescritti, ed era stata intensificata l’attività di accertamento e di controllo fiscale in questo settore. Evadere il fisco svolgendo illegalmente una parte consistente del trasporto era diventato troppo rischioso e per piccole imprese abituate a campare sui margini consentiti dal lavoro in nero le conseguenze erano state imponenti: alcuni autotrasportatori erano stati messi fuori dal mercato e costretti a chiudere, altri avevano dovuto rivedere i loro conti e i loro modelli di gestione e di organizzazione per mantenere i margini di guadagno e garantirsi la sopravvivenza. Le ripercussioni sulle condizioni di lavoro degli autisti ed in particolare sui loro orari e sulla loro retribuzione erano state immediate. Il guadagno complessivo non era diminuito ed in alcuni casi raggiungeva, globalmente, dimensioni ragguardevoli, ma porzioni via via più significative del salario si erano spostate dalla parte fissa, dallo stipendio strettamente inteso, a voci legate al rendimento, cioè alla riduzione degli organici e al prolungamento oltre ogni limite ragionevole dell’orario di guida e delle giornate di lavoro degli autisti, fino quasi ad annullare i periodi di riposo previsti dai contratti di lavoro. Se un camion costava duecentocinquanta o trecento milioni, quel settore doveva essere considerato ad alta intensità di capitale e gli impianti, di conseguenza, utilizzati il più largamente possibile e tendenzialmente in continuazione. Silvano Centioni appuntava regolarmente su un taccuino personale le giornate e le ore di trasferta: a fine mese, facendo i conti, riviveva in pochi minuti cosa aveva voluto dire per lui, in pratica, arrivare a una paga globale di due milioni e mezzo di lire. Notti a casa, nel suo letto, ne aveva passate ben poche. Oltre a guadagnarla stando sempre in giro, la trasferta non doveva poi essere spesa nelle trattorie o nelle pensioni lungo la strada. Per fare il massimo possibile di economia ed in questo modo trasformare l’intera trasferta in reddito disponibile per la famiglia, Centioni, come molti suoi colleghi, viaggiava dotato di un fornello da campeggiatore con il quale, quando non ne poteva più di panini, cucinava qualcosa di caldo. Ma naturalmente se capitava un infortunio, o si finiva ammalati o per una qualsiasi altra ragione si doveva stare a casa e non si poteva viaggiare, trasferta non se ne prendeva e la paga era ridotta ai minimi termini. E lo stesso meccanismo valeva per la futura pensione. Di questa situazione Centioni si lamentava meno di quanto non facesse il suo padrone che tuttavia, ogni volta che la sua organizzazione di categoria dichiarava una giornata di sciopero, faceva partire i camion con qualche ora di anticipo.

Mohamed Mossad
La carovana del Circo Togni, come tutti gli anni, arrivò a Ravenna verso il finire dell’estate: era quello un passaggio obbligato del suo itinerario sul quale influivano, oltre al potenziale mercato rappresentato dalle masse di turisti che ancora affollavano la riviera, le origini romagnole dei proprietari. Da parecchio tempo Mohamed Mossad pensava che fosse arrivato il momento di cambiare lavoro. Dal circo in quei quattro anni aveva avuto tutto quello che era possibile pretendere: aveva conosciuto un ambiente nuovo, aveva girato in lungo e in largo per gran parte dell’Europa e, cosa ancora più importante, non solo aveva potuto provvedere a se stesso, ma era anche riuscito a spedire regolarmente alla famiglia, al Cairo, un po’ di quattrini. Quando, poco tempo dopo il suo arrivo in Italia, aveva trovato quel posto da inserviente tuttofare si era considerato un uomo fortunato, ma le stesse cose gli si presentavano ora sotto una diversa luce. Il lavoro non si poteva dire che fosse granché, di animali e tendoni cominciava ad averne abbastanza, e anche il viaggiare finiva per ripetere continuamente gli stessi luoghi nelle stesse stagioni, senza più costituire lo stesso motivo di interesse e di curiosità dei primi tempi. Ma soprattutto Mohamed era arrivato intorno alla più che rispettabile età di trent’anni ed un bilancio e qualche previsione non potevano essere evitati. Dai suoi piani, fin dai giorni nei quali si era deciso per la partenza, era sempre stata esclusa la prospettiva dell’emigrazione a vita, di un abbandono definitivo del suo paese e del suo ambiente. Al Cairo aveva pur sempre un lavoro e, per quanto di modeste condizioni, la sua famiglia, che gli aveva permesso di studiare e di diplomarsi, poteva ancora offrire qualche aiuto e qualche sostegno. La sua decisione di partire non era stata imposta dal bisogno di sopravvivere, ma era stata presa sulla base della volontà di migliorare. Per questo il lavoro all’estero era sempre stato concepito come una parentesi, una scelta provvisoria che gli consentisse di fondare su basi più solide e sicure la vita a casa sua. Ora, se non voleva tornare al Cairo già vecchio, i tempi si facevano più stretti. Con quello che riusciva a guadagnare e risparmiare al circo, per raggiungere l’obbiettivo che si era fissato ci sarebbe voluto troppo tempo, ammesso che ci fosse poi effettivamente riuscito. Insomma si trattava ormai di aspettare l’occasione buona, ma la decisione di lasciare il circo e di cercare qualcosa di meglio nella sostanza poteva considerarsi presa. Assorto in questi pensieri Mohamed, finito il suo turno di lavoro, si mosse verso il centro della città. Il suo obbiettivo era il Bar Americano, un locale aperto fino alle ore piccole e frequentato soprattutto da marittimi, che si trovava allora nella zona della vecchia darsena, vicino al passaggio a livello, e che oggi è stato sostituito da una tranquilla ed inospitale latteria. Mohamed conosceva il posto per esserci stato più volte nelle sue precedenti permanenze a Ravenna e vi si trovava a suo agio, non solo perché era probabile incontrarvi connazionali o arabi di altra nazionalità con i quali scambiare parole e notizie, ma anche per un’affinità e una simpatia che avvertiva spontanea con il mondo dei naviganti. Si può forse immaginare che li sentisse doppiamente simili a se stesso: come emigrante, visto che anche se non sono considerati tali dalle nomenclature ufficiali, tale è in realtà, sotto molti aspetti, gran parte della loro condizione quotidiana, e come uomo di circo, come girovago di professione cui sembrava di riconoscere nei marinai, girovaghi del mare, una specie di particolari colleghi. Inoltre tra il suo arabo, un po’ di italiano e un po’ d’inglese si può dire che non ci fosse avventore del bar col quale egli non fosse in grado di comunicare. E a un tavolino del bar Americano, da alcuni marittimi, forse egiziani, la cui nave in quel periodo approdava regolarmente a Ravenna, quella sera Mohamed venne a sapere, quasi per caso, dell’esistenza di un egiziano residente in città da molti anni, sposato con una donna italiana e provvisto anche di questa cittadinanza, di mestiere agente marittimo e che aveva forse qualche possibilità di procurare ad un compatriota un imbarco a bordo di qualche nave. La mattina dopo Mohamed chiese alla direzione del circo il permesso di assentarsi dal lavoro e, tornato in città, suonò alla porta dell’ufficio.

Alessandro Centioni
“Non ha mica ottant’anni, Diobono, e un lavoro lo troverà!”. Silvano Centioni apparteneva al grande partito di quanti pensano che il lavoro non c’è solo per chi non ha voglia di lavorare. Quando il figlio maggiore, Daniele, poco prima di partire per il militare, in seguito ad una bella litigata con il cognato del padrone, aveva perso il posto da imbianchino dove aveva lavorato nell’ultimo anno e mezzo, non si era preoccupato più di tanto, convinto com’era che con la buona volontà un lavoro non era difficile trovarlo. Ora la patria era stata servita. Daniele, che era ritornato a casa da molti mesi, continuava a rimanere a spasso senza che nessuna occasione d’impiego si presentasse. L’unica cosa che gli era capitata era stata una truffa: andato a lavorare per un certo periodo in uno scalificio vicino a Forlì, non solo aveva scoperto di non essere stato messo in regola, ma alla fine del mese non era stato pagato e nonostante le proteste e diversi tentativi non era riuscito a recuperare nemmeno una lira. Il padre cominciava a rivedere le proprie ottimistiche convinzioni. Quanto a Sandro, il secondogenito, le cose andavano meglio, anche se non proprio tutto era filato liscio. Prima, quando era ragazzino, c’erano stati problemi con la scuola. Bocciato una prima volta in quinta elementare, ribocciato di nuovo in prima media, era arrivato alla fine dell’età dell’obbligo ancora ben lontano dal diploma di terza media e a tutti l’unica decisione sensata era sembrata quella, almeno per il momento, di lasciar perdere. Ma su questo insuccesso scolastico il padre aveva una sua spiegazione che gli permetteva nello stesso tempo di assolvere il ragazzo e di non fare un dramma dei suoi deludenti risultati. Non era colpa di nessuno se Sandro era nato settimino -anzi per la precisione di sei mesi e mezzo- e lo sviluppo del suo cervello ne aveva risentito, rendendogli più difficili che agli altri attività come lo studio. Il padre aveva anche accompagnato il bambino da uno specialista a Bologna, ma nonostante le sue dichiarazioni che tutto era normale, era rimasto delle proprie opinioni e aveva interpretato il parere del medico come la conferma che non c’era nulla da fare. Comunque per il resto Sandro era una persona completamente normale e se non era tagliato per lo studio avrebbe trovato altro da fare nella vita. E altro aveva trovato. Per prima cosa, nei primi mesi dopo l’uscita dalla scuola, piccoli lavoretti qua e là per tirar sù qualche migliaio di lire. Poi un posto di apprendista in una piccola impresa di lavorazioni meccaniche, la Carpenteria Meccanica Bertinorese. Il posto sarebbe stato discreto, e forse ci sarebbe stata la possibilità di imparare un mestiere. Ma c’erano delle controindicazioni. Una era che, trattandosi di un’impresa d’appalto, la ditta aveva in quel periodo i suoi cantieri lontano da Bertinoro, e per Sandro, un ragazzo molto giovane, questo voleva dire sottoporsi a lunghe trasferte lontano da casa. Nei primi mesi era finito a Terni, dopo a Prato, ed era costretto a star fuori tutta la settimana, dall’alba del lunedì alla tarda serata di venerdì. Quando non ballava anche il sabato. Né per il ragazzo, né per la famiglia era l’ideale. A Centioni padre, poi, sembrava che di girovaghi in famiglia bastasse lui, tutti i giorni a cavallo del suo camion. Per di più questo avveniva nello stesso periodo nel quale Daniele faceva il soldato. L’idea della moglie a casa da sola con il figlio più piccolo e del resto della famiglia sparso per il mondo al padre non poteva piacere. L’altra controindicazione, indispensabile per completare il quadro, era che tutto questo movimento produceva alla fine una paga intorno alle quattrocentocinquantamila lire, che non poteva certo esercitare una grande attrazione nemmeno su un ragazzo di diciassette anni. E così alla prima occasione di un lavoro migliore, Sandro Centioni lasciò la Carpenteria Meccanica Bertinorese: si trattava di un posto in una piccola azienda nella zona industriale di Bertinoro, la Nuova Metalli, specializzata in taglio e lavorazione della lamiera che, oltre ad essere a due passi da casa, prometteva un salario più decoroso.

La commemorazione
Vorrei cominciare ripetendo ciò che disse dieci anni fa il vescovo di Ravenna, in occasione dei funerali dei ragazzi morti nella Mecnavi. Mons. Tonini diceva: “C’è qualcosa di assoluto in questa tragedia. C’è un amore assoluto che è stato colpito. L’amore è rigoroso e non ammette compromessi, non ammette giochi ed attenuazioni, perché quando l’amore ha dato la vita non può accettare che la vita venga vilipesa. E’ il delitto assoluto! C’è un dolore che dovrebbero imparare gli statisti che costruiscono la società. Da una parte c’è un progresso folle della tecnologia e dall’altra c’è un pensiero che svaluta la vita umana. Non è vero che il mondo del lavoro sia pacifico. Dalla stiva di quella nave nasce una denuncia: l’umanità sta distruggendo i tesori della propria ricchezza; stiamo perdendo il confine tra il bene e il male”.
Io penso che queste parole costringano alla riflessione. E’ vero che si ripetono molto spesso incidenti sul lavoro; è vero che ci sono ogni giorno, ogni minuto, fatti che dimostrano la disattenzione, a volte addirittura il disprezzo per la sicurezza e la vita delle persone. Ma è altrettanto vero che, secondo me, quello che è successo, non solo a Ravenna, non solo a Bertinoro, ma in tutto il Paese il 13 marzo del 1987, fu una cosa che ebbe una dimensione diversa da quella che capita in altre occasioni, pure piene di dolore, di tristezza e di sofferenza. E portò, appunto, moltissime persone, io credo la grande maggioranza della popolazione italiana, a considerare la questione come non riguardante solo i problemi del lavoro, solo i problemi della sicurezza, solo i problemi del diritto; pose appunto la società italiana -una società italiana che io penso le parole del vescovo di Ravenna abbiano interpretato- di fronte di nuovo ad un grande problema morale, ad una scelta fra il bene e il male. E questo, secondo me, è dato da tante cose, ma in particolare da un fatto: dalla quantità di ragazzi, di giovani che morirono in quella tragedia di una caratteristica così inaccettabile.
Vorrei dire rapidamente pochissime cose riguardo ad alcuni aspetti generali, ad alcuni problemi che lì abbiamo potuto vedere e che oggi si ripropongono, per passare poi a guardare più da vicino queste persone che ora non ci sono più.
A dieci anni dalla tragedia della Mecnavi, noi siamo di fronte al riproporsi di questioni che riguardano la natura del lavoro, la natura dei suoi diritti ed il rispetto per le persone che del proprio lavoro vivono.
La questione di un processo di modernizzazione del paese, di uno sviluppo del paese, che contraddice violentemente, fino a casi di così assoluta gravità, di “delitto assoluto” (per usare le parole di Mons. Tonini), come quelli della Mecnavi, sono diventati un problema che oggi fa parte delle cose di cui questo paese discute senza la dovuta attenzione, senza il dovuto rigore. Mi riferisco ai problemi della sicurezza, in primo luogo delle persone. Noi sentiamo oggi ancora troppe persone che si lamentano perché una legge come la n.626 (legge che introduce criteri di controllo della sicurezza sui posti di lavoro) sarebbe troppo carica di vincoli, troppo costosa. Ciò fa parte di una polemica che sentiamo tutti i giorni; e sentire queste cose in un giorno come questo, anniversario di una tragedia così grande, mi pare che sia ancora più insopportabile.
C’è poi un’altro atteggiamento che mi pare ci porti ad una riflessione collegata a ciò di cui stiamo discutendo, ed è quello di dire che pur di lavorare si può accettare tutto. Quante volte abbiamo sentito dire in questi giorni che in una situazione in cui la disoccupazione è così diffusa, in una situazione nella quale i problemi delle persone sono così gravi, pur di lavorare si può accettare tutto, si può accettare l’assenza di regole? La parola “regole”, che a volte sembra una parola burocratica e vuota, in questo caso si carica di significato.
Io faccio il sindacalista e tante volte sono insoddisfatto del mio lavoro, come credo lo siano molti di quelli che fanno il mio stesso lavoro. A volte vedo che ci sono tante cose che non riesco a fare, tante volte vedo i limiti della nostra iniziativa, però devo dire che quasi mai mi è capitato di sentire che il lavoro sindacale è prezioso come quando, pochi giorni dopo la tragedia della Mecnavi, abbiamo sentito parlare del sindacato una persona come Ezio Arienti. Quasi mai abbiamo sentito la preziosità del nostro lavoro come in quell’occasione. E ci siamo ricordati che, nonostante tutti i nostri errori, nonostante tutte le cose che non riusciamo a fare come vorremmo, qualsiasi persona che abbia esperienza di lavoro sa che in un posto di lavoro dove c’è un sindacato, dove c’è un rispetto delle regole, dove ci sono delle cose che vengono rispettate, la vita è diversa da quella che c’è in un posto di lavoro in cui queste cose non esistono. E questa mi pare sia una lezione che viene dalla tragedia della Mecnavi e dalla discussione che c’è oggi nel paese.
Il vescovo di Ravenna, Mons. Tonini, chiedeva agli statisti che costruiscono la società di guardare quel dolore e di imparare da esso. A me pare che questa sia una cosa molto importante.
Forse non era necessario chiamare una persona come me da fuori per dire cose che ciascuno di voi sa e può dire meglio di quanto non abbia fatto io.
C’è però una ragione per cui io sono stato invitato a tenere questa commemorazione ed è la seguente. Dieci anni fa ero a Torino a fare il mio lavoro e quando lessi sui giornali della tragedia della Mecnavi, mi venne voglia di cercare di capire in profondità ciò che era successo. Infatti, il resoconto che facevano i giornali non mi convinceva; non mi convinceva la rappresentazione che veniva data della tragedia come il puro risultato di una esperienza di emarginazione. Mi sembrava che tale immagine non combaciasse con una terra così ricca di tradizioni e di sviluppo come era ed è la Romagna. Per questi motivi, con l’intenzione di capire, io lasciai per qualche tempo il mio lavoro e venni qui a Ravenna e a Bertinoro per cercare di parlare con alcune persone -qualcuna è qua e si ricorderà di me- al fine di capire. Siccome in questi anni ho cercato di riflettere su queste cose, anche se questo mio lavoro non è arrivato ad alcuna conclusione, vorrei, con assoluta semplicità, dirvi le cose sulle quali io ho riflettuto e ciò che a me è sembrato di capire. Prendetelo semplicemente come il punto di vista di una persona che ha guardato in modo molto superficiale e molto rapido queste realtà e che esprime delle considerazioni.
Innanzi tutto io non credo che questi ragazzi molto giovani potessero essere definiti dei ragazzi emarginati. Le famiglie di Bertinoro erano famiglie di lavoratori. Il Sig. Centioni è un camionista ed ha fatto tale mestiere per tutta la vita. Ha lavorato in giro per l’Europa guadagnando il salario per sé e per la sua famiglia, naturalmente non in una situazione di agiatezza ma garantendo il necessario per vivere a una famiglia normale. Il papà di Marco Gaudenzi, quando io parlai con lui, era un cassintegrato alla Maraldi che stava diventando del gruppo Marcegaglia. Sua madre invece mi pare lavorasse in Comune nel settore dell’Assistenza Sociale.
I genitori di Onofrio Piegari mi sembra lavorassero la campagna. E così via.
Ci sono poi tante altre persone non di Bertinoro che erano tra questi 13 ragazzi. Vorrei almeno citare un uomo che si chiamava Mohamed Mossad; era un egiziano e forse la sua presenza nella strage è stata una delle cause che ha spinto una parte dei giornali e dell’opinione pubblica a rappresentare quello come un mondo di emarginazione. Mohamed Mossad, che era un uomo di 35-36 anni, era venuto in Italia dopo aver svolto molti lavori. Aveva girato l’Europa col Circo. Poi, arrivato a Ravenna, molti anni prima del 1987, aveva incontrato un egiziano sposato a Ravenna che si chiamava Misc e faceva l’agente marittimo. Attraverso di lui aveva trovato lavoro a Ravenna. Aveva lavorato come si usa fare in quei tipi di lavoro, cioè con poca regolarità, tante ore, niente contributi, niente tasse, una retribuzione abbastanza consistente. Mohamed Mossad era tornato a Il Cairo ed aveva comprato una libreria e stava per cominciare a fare il libraio. Doveva sposarsi ed aveva ancora bisogno di un po’ di soldi per cui aveva deciso di venire per l’ultima volta a Ravenna per fare ancora qualche mese di lavoro così da guadagnare i soldi per mettere su casa.
Vi racconto queste cose per dire che neanche in questo caso lo stereotipo, la figura, l’immagine dell’emarginazione funziona. Mohamed Mossad non era un emarginato, ma una persona che stava costruendo con successo la propria vita, la propria esistenza. Era un uomo che stava raggiungendo dei risultati personali molto importanti attraverso le vie per lui possibili.
Certo, non era un mondo di ricchezza ma un mondo di persone che volevano partecipare dei consumi degli altri, dei consumi normali. Era un mondo di ragazzi che facevano la vita dei loro coetanei, che volevano il motore, volevano possibilmente un’automobile, che andavano in discoteca quando potevano, che conducevano una vita non diversa da quella di altri ragazzi. E se c’era e se c’è una contraddizione non è una contraddizione fra questi ragazzi e gli altri. La contraddizione che più mi ha colpito in questi anni di riflessione su questo fatto, è quella che stava dentro la giornata, il tempo di questi ragazzi, la contraddizione fra una vita dei consumi, non dico ricchissimi perché la parola può essere esagerata, ma ricchi come lo sono i consumi nel nostro mondo, nella nostra società, nel nostro paese che offre tante cose, ed un lavoro così terribile, così tremendo, così disumano. Anche a questo proposito ha ragione Tonini quando parla di “una tecnologia che ha inventato tante cose e non è riuscita ad inventare un modo per pulire le sentine di una nave in modo diverso da quello di strisciarci dentro come topi”.
Questa a me pare una cosa su cui riflettere.
Queste persone avevano avuto altre esperienze di lavoro, anche se spesso irregolare. Onofrio Piegari prima lavorava come apprendista alla Panighina, in una piccola azienda della zona industriale. Capita molto spesso che degli operai facciano delle assenze, ma capita raramente che degli operai stiano assenti dal lavoro nei giorni di paga. A me un suo amico ha raccontato che a Onofrio Piegari è capitato di stare a casa dal lavoro nel giorno di paga in quanto quel giorno capitava questo: lui andava a prendere un assegno, andava in banca, lo cambiava, ritornava in fabbrica ed una parte di quell’assegno che aveva cambiato lo restituiva in contanti al padrone che glielo aveva pagato! Formalmente la sua retribuzione era a posto, ma nella sostanza lui doveva restituire una parte di questi soldi. Voglio dire, quindi, che l’esperienza del lavoro irregolare non nasce lì, ma è un’esperienza che ha delle radici.
Si potrebbero raccontare tante altre cose. Per Sandro Centioni non era il primo lavoro. Era stato a lavorare a Terni e a Prato. Mi raccontava suo padre che forse aveva perso il lavoro per un infortunio, in quanto si era fatto male ad una mano lavorando ad una pressa, lui che non era tanto esperto in quelle cose.
Marco Gaudenzi mi pare di ricordare che l’unico lavoro che avesse fatto prima fosse stato la campagna estiva al mare come cameriere d’albergo l’anno precedente.
Perché dico queste cose? Perché mi pare che occorra capire il motivo per cui questo succede. Per me questa è la domanda più importante: Cosa c’era? Io, con il rispetto dovuto ad una figura così straordinaria, come quella di Mons. Tonini, non penso che ci fosse solamente la sete di denaro, non penso che ci fosse solo un mondo in cui i valori erano scomparsi. Sono convinto che questi ragazzi fossero persone piene di valori. E quali? Il valore dell’uguaglianza, appunto. Siccome molte delle loro famiglie non potevano garantire loro certe cose, per partecipare ai consumi degli altri dovevano guadagnarsi un reddito con le loro mani, lavorando. Poi i valori della libertà, dell’indipendenza, dell’autonomia: poter fare le cose che si desidera fare, conquistarsele con le proprie mani. Aggiungo anche i valori della responsabilità e del dovere, insomma ciò che ti fa decidere di non pesare sulla tua famiglia, ciò che ti fa decidere, arrivato ad una certa età, di partecipare ai doveri familiari, alle sue difficoltà, dando il proprio contributo.
Io penso che questi siano valori molto importanti. Il fatto è che quando questi valori, queste spinte escono fuori e si scontrano con un mondo del lavoro in cui, invece che potersi esprimere in modo civile e regolato, trovano la situazione determinatasi in quell’occasione nel porto di Ravenna, per la spinta ad organizzare in quel modo la produzione per ragioni peraltro molto precise, allora tali valori, invece che trovare, appunto, un canale positivo per esprimersi, rischiano di diventare dirompenti e di portare ad una tragedia, ad una fatalità. Parlo di fatalità non perché penso che sia stata una fatalità, un incidente, ma perché in una vicenda di queste dimensioni c’è sicuramente un elemento che va al di là delle contingenze e che implica quindi un giudizio più generale.
A me pare che questo sia un punto su cui riflettere. In questi anni ho pensato spesso a questa vicenda che per me è stata un momento dolorosamente istruttivo nella mia attività, nel mio modo di pensare. Pensate, tredici persone così diverse (anche se quelle di Bertinoro erano fra loro più amiche), che arrivano da vari punti e che si trovano per caso in un punto. Se la loro vita non si fosse interrotta lì, se non fosse finita quel giorno, chissà dove sarebbero andati, in quali direzioni diverse! Infatti, molte e diverse erano le situazioni.
C’è un’altra cosa che vorrei dire e che vorrei fosse accolta con benevolenza. E’ un’osservazione critica che faccio non su Bertinoro, non sulla Romagna, non su queste terre, ma su di noi tutti perché lo stesso fenomeno io lo trovo nella mia esperienza e nelle situazioni che incontro a Torino e in Piemonte. Una delle cose che più mi hanno fatto pensare è che forse sarebbe stata necessaria e sarebbe necessaria oggi, nella società, più attenzione alla formazione e allo studio di questi ragazzi. Raccontavo prima al sindaco che nella provincia di Biella, dove la disoccupazione è quasi zero, vediamo che i ragazzi a 14-15 anni, siccome c’è di nuovo lavoro, lasciano la scuola e si infilano nel lavoro. In questo naturalmente emerge una cultura molto forte e radicata che pensa che attraverso il lavoro si possa ottenere un’affermazione. Se guardiamo queste 13 persone, con pochissime eccezioni, l’interruzione troppo precoce degli studi è una delle cose che le accomuna e caratterizza.
Credo che, se una commemorazione non è semplicemente un ricordo, ma una cosa da cui trarre degli insegnamenti, questo è un punto importante da ricordare. Questa è una cosa molto importante da dire, perché riguarda il futuro, e perché riguarda un errore che non compete alle singole persone, ma all’intera società allorché si muove in questa direzione.
Avrei tante altre cose da raccontare, ma ne dico solo una. Io, al tempo, sono rimasto commosso di un racconto che Silvano Centioni mi fece di una vacanza a Lourdes con i suoi ragazzi. Sono rimasto impressionato dal racconto di un uomo che girava l’Europa ed arrivava tante volte vicino a quel posto; vedeva i cartelli che lo indicavano e non ci andava mai. Quindi, con la sua famiglia ha preso su ed è partito. Un po’ come capita a dei genitori che portano i figli a vedere il luogo di lavoro, per Silvano Centioni regalare questo giro alla famiglia significava far vedere le strade di quell’Europa nella quale lui girava.
Ricordo queste cose perché appunto stiamo parlando di persone che erano così giovani. Marco Gaudenzi non aveva ancora compiuto 18 anni. Vale comunque la pena dire che queste persone hanno vissuto -per il tempo che hanno vissuto- una buona vita e quindi è giusto ricordarle anche così. Non solo perché questo è di sollievo a chi c’è ancora oggi, ma perché questo è un modo giusto di guardare a loro e di conservarne la memoria.
Bertinoro, 12 marzo 1997