Mahmoud Hawari, archeologo, insegna presso la facoltà di Studi Orientali dell’Università di Oxford. L’intervista è stata raccolta nell’ambito del ciclo di conferenze organizzato dal Centro Interdipartimentale di Studi Balcanici e Internazionali di Venezia.

Che cosa significa essere un archeologo in Palestina e che ruolo gioca l’archeologia nell’identità palestinese?
Beh, prima di tutto sono un archeologo, potrei essere un archeologo ovunque nel mondo, in Italia, in Turchia, in Egitto, in Iraq o in Africa. Voglio dire che non mi sono appassionato all’archeologia per ragioni politiche. Fin da quando ero un giovane studente, mi sono sempre interessate le antichità, le vecchie monete, i frammenti di vasi... All’epoca non pensavo nemmeno all’identità o alla politica, all’appartenenza alla terra, al patrimonio culturale o altro. Ero semplicemente interessato all’archeologia, punto. La situazione si è complicata quando mi sono iscritto all’università.Essendo un israeliano-palestinese (sono nato nel 1948 in Israele) ho infatti frequentato un’università ebraica.
Ecco, per un palestinese studiare archeologia in un’università ebraica rappresenta decisamente una sfida, perché bisogna continuamente scendere a patti con la propaganda sionista. Per esempio, il periodo romano diventa "l’archeologia del popolo ebraico nel periodo romano”, e così per gli altri periodi storici: tutto è concentrato e focalizzato sulla presenza ebraica nell’archeologia. Ecco, questo era molto disturbante. Tanto più che l’archeologia veniva costantemente mescolata con la politica e l’ideologia.Insomma era impossibile studiare l’archeologia come una semplice materia, senza che altre istanze venissero coinvolte.Comunque, ho concluso il mio primo corso di studi e ho conseguito la laurea in archeologia. Avevo anche cominciato il master all’università ebraica, ma ho ben presto realizzato che sarei dovuto andare altrove, soprattutto perché volevo specializzarmi in archeologia islamica.
Così mi sono trasferito a Londra, dove ho ottenuto il master e poi il dottorato.Per venire alla domanda, posso dire, in base all’esperienza che ho vissuto, che essere archeologo, per una persona con il mio retroterra, vuol dire essere costretti a misurarsi con tutta una serie di tematiche, come il rapporto tra l’archeologia e la politica, tra l’archeologia e l’identità, tra l’archeologia e il patrimonio culturale.
Un archeologo palestinese non può prescindere da questi temi. Se fossi vissuto in altri posti, come in Italia per esempio, dove pure vi sono alcuni aspetti di intreccio tra politica e archeologia, sarebbe stato diverso.
Dicevi che l’archeologia in Israele è diversa dall’archeologia in Palestina. Puoi spiegare?
In effetti siamo di fronte a una doppia realtà. Abbiamo la realtà israeliana, dove gli archeologi operano all’interno della loro ­realtà politica, geo-politica e ideologica. Mi spiego, lo Stato di Israele è il risultato del movimento sionista: un popolo che cercava un’identità, una terra nazionale, attraverso il processo della colonizzazione ha conquistato -e talvolta comprato- un territorio e, grazie anche alle forze internazionali, ne ha preso il controllo.
In questo scenario l’archeologia ha giocato un ruolo preciso che è differente da quello di molti altri posti nel mondo, forse simile ad altri contesti coloniali. Comunque la sua funzione è diventata quella di fornire radici al popolo ebraico.
L’archeologia è stata, cioè, chiamata a rinforzare le connessioni tra il moderno Stato e l’Israele antico che esiste nelle Scritture.
Era questo il suo ruolo principale. Per ottenere questo obiettivo si è concentrata sui siti menzionati nella narrazione biblica, per poter fornire quei simboli nazionali e per creare una nuova narrazione che legasse gli israeliani di oggi all’antico popolo biblico. Questa si è rivelata, col tempo, un’operazione problematica. A segnalare l’esistenza di incongruenze non siamo stati solo noi archeologi palestinesi. Oggi ci sono anche archeologi israeliani, soprattutto giovani, che riscontrano problemi. E vi sono anche un certo numero di studiosi europei e internazionali, storici della Bibbia, teologi, storici e anche archeologi, che denunciano molti problemi in questa disciplina che si chiama "archeologia biblica”. I primi sono stati un gruppo di teologi, la cosiddetta "Scuola di Copenhagen”.
Che tipo di critiche venivano avanzate dalla Scuola di Copenhagen?
Questi intellettuali facevano parte di una scuol ...[continua]

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