A sinistra, se la parola sinistra ha ancora un senso che vada oltre una delle indicazioni date dalla Treccani: “La mano che è dalla parte corrispondente al cuore”, ecco a sinistra abbiamo un problema di subalternità. Lo abbiamo appena cerchiamo di parlare delle vicende dell’Europa centrale e dell’Est. Per citare un’immagine coniata dallo storico tedesco-israeliano Dan Diner, occorre rovesciare lo sguardo: anziché osservare Odessa dalla prospettiva di Parigi, vedere Parigi dalla scalinata di Potemkin.

Esiste una nozione cara alle femministe “mansplaining”, crasi di due parole in lingua inglese, “man” e “explaining”: è l’uomo, maschio che spiega alla donna, femmina, come vanno le cose del mondo. Le spiega pure i sentimenti e i pensieri che lei ha appena espresso. Perché lui sa meglio. Nei social media, oggi, è apparsa una nozione figlia di “mansplaining”: “westsplaining”. È la sinistra occidentale che spiega a chi vive a Varsavia, Leopoli, Budapest, Sarajevo o Odessa, come guardare e capire il mondo.
In questa narrazione, la storia non esiste, se non come ripetizione (ci tornerò), in genere comincia con la Seconda guerra mondiale (la memoria non va oltre) e i territori che facevano parte dei tre grandi imperi, quello zarista, quello asburgico e quello ottomano, sono una specie di anomalia e, come tutte le anomalie, da normalizzare. L’Ucraina ne è un esempio. Provo a fare un elenco (lo prendo in prestito dal polonista Luigi Marinelli). Eccolo: Nikolaj Gogol, Joseph Conrad, Sholem Aleichem, Michail Bulgakov, Isaac Babel, Anna Achmatova, Vasilij Grossman, Joseph Roth, Paul Celan, Shmuel Yosef Agnon, Zbigniew Herbert, Adam Zagajewski, Stanisław Lem. Sono tutti autori, nati in quello che oggi è il territorio dell’Ucraina e scrivevano in varie lingue: russo, tedesco, polacco, yiddish, ebraico. Potrei aggiungere autori in lingua ucraina o bilingui (russo e ucraino) come Taras Shevchenko o Larysa Kosac. E ancora, potrei citare Adam Mickiewicz, sommo poeta, nato in una località oggi in Bielorussia, e che nei primi versi di “Pan Tadeusz”, Messer Taddeo, forse il più importante testo poetico in polacco scrive: “Lituania patria mia”. Non lontano da dove nacque Mickiewicz, veniva al mondo Abraham Sutzkever, il più grande poeta yiddish di tutti i tempi, considerato un “lituano”, e ancora, a Czernowitz, città natia di Paul Celan, era nato pure un poeta yiddish molto importante, Itzik Manger, che quando divenne famoso sentì la necessità di spostarsi dalla Romania, di cui Czernowitz faceva parte, a Varsavia in Polonia.

Ecco, sto parlando di territori dove le città erano abitate da persone di varie lingue, fedi, dai sogni divergenti, in una dialettica fra conflitto e convivenza. Odessa ne è un esempio. Basti citarne la toponomastica. A due passi dal lungomare, dove si affacciano palazzi per lo più concepiti da architetti italiani, c’è l’incrocio tra via Rishelevskaya e Lanzhenorovskaya. Portano i nomi di due francesi, il duca de Richelieu e Louis Alexandre de Langéron, ambedue governatori della città e della regione, ambedue al servizio dello zar nemico della loro patria natia; Langéron comandò le truppe russe nella (perdente) battaglia di Austerlitz contro le vincenti armate di Napoleone. E ancora: da Odessa veniva Meir Dizengoff, fondatore e primo sindaco di Tel Aviv, così come Josef Klausner, lo zio di Amos Oz, intellettuale importante in Israele e di cui lo scrittore amava parlare spesso e con ammirazione. E qui cominciò a scrivere e sognare Vladimir Zabotinski, fondatore della destra sionista. Sempre a Odessa vissero due uomini che reinventarono la poesia in ebraico moderno: Chaim Bialik e Shaul Tschernikhovskij. Si può dire che Tel Aviv sia figlia di Odessa. Aggiungo che qui ebbe inizio pure il movimento nazionale greco. Potrei continuare, ma torno alla presunta anomalia.
Eccola. La nascita degli Stati nazionali nei territori degli ex imperi ha spesso coinciso con pulizia etnica e violenza. Ora, mentre in Occidente la violenza si dispiegava nelle colonie, era quindi “esterna” alla vita delle metropoli, in quei paesi la stessa forma di violenza si tramutava in guerra fratricida e talvolta in pogrom. Nel nostro immaginario però questa anomalia è una colpa -della vittima- e crea difficoltà perché ci costringe a fare i conti con la complessità delle identità plurime e delle situazioni dove la memoria e l’oblio si sovrappongono. Dalla paura dell’anomalia nasce a sua volta la tentazione di pensare: in fondo sono vicende incomprensibili per noi occidentali. E ciò che è incomprensibile porta all’indifferenza. Ecco perché talvolta, piuttosto che pensare agli abitanti delle lande degli ex imperi come a gente strana, cui va spiegato come debba andare il mondo, sarebbe bene assumere il loro sguardo.

È anche bene astenersi dalle analogie. Ne cito una sola: è vero che furono i sovietici a liberare l’Europa centro-orientale dal nazismo e lo fecero con un eroismo difficilmente immaginabile. Un giorno, Agnes Heller, la grande filosofa ungherese, mi raccontò che il momento più felice della sua vita era stato quando aveva visto un carro armato sovietico nel ghetto di Budapest all’inizio del 1945. Poi commentò: “La liberazione però non equivale alla libertà”. Aggiungo io: quelle truppe erano sovietiche e correva l’anno 1945. Non erano truppe russe nel 2022. Le analogie talvolta sono abusi di memoria.