(articolo originariamente pubblicato su Dissent magazine)
Nelle guerre che ci sono lontane ci schieriamo per motivazioni ideologiche, morali e legali. Studiamo la storia, analizziamo gli argomenti dei contendenti. Siamo pur sempre animali politici. Ma, talvolta, abbiamo anche motivazioni personali.
Nel 2012, mia moglie e io abbiamo trascorso alcuni giorni a Kyiv. Con altri due redattori di “Dissent”, Marshall Berman e Michael Kazin, eravamo stati invitati in Polonia dai redattori di “Krytyka Polityczna”, rivista di sinistra che allora celebrava il decimo anniversario. Abbiamo alloggiato in differenti città polacche, città in cui i nostri amici avevano circoli di discussione e studio, e poi Judy e io siamo stati mandati a Kyiv a incontrare un piccolo gruppo di giovani uomini e donne che pubblicavano l’edizione ucraina di “Krytyka”.
Siamo arrivati a Kyiv giusto in tempo per unirci a una manifestazione per la democrazia e il pluralismo che si teneva in un piccolo parco nel centro della città. Non c’erano tante persone, ma comunque, a fine manifestazione, siamo stati infastiditi da un gruppo di ultra-nazionalisti ucraini che ci hanno inseguito, gridandoci contro e agitando i pugni. Le persone che ci ospitavano ci hanno condotto in un piccolo ristorante (per fortuna, la banda di nazionalisti non si è spinta fin dentro il locale), dove ci siamo seduti e abbiamo parlato. Il gruppo ucraino di “Krytyka” era sottoposto a forti pressioni, contava su meno soci ed era più debole politicamente della controparte polacca. Ma si trattava comunque di persone di sinistra sincere e impegnate.
Nel 2012 Kyiv era una città cupa e triste. Noi alloggiavamo in un hotel di secondo o terz’ordine, un posto pur dignitoso, che fungeva anche da bordello. I papponi dall’aria dura, con al seguito giovanissime donne, non provavano nemmeno a nascondere la loro attività. La città ci appariva corrotta, come lo era la classe dirigente di allora -un’oligarchia divisa in fazioni, con politici che guardavano a est e altri che guardavano a ovest, ma dei quali nessuno riponeva il proprio impegno in altro se non la propria oligarchia. In quel momento, il presidente ucraino era filo-russo.
Le persone di sinistra di Kyiv erano un gruppetto egalitario e disorganizzato, ma uno di loro, che poteva sembrarne il leader, ci ha portato a fare una passeggiata per la città: molte aree sembravano aver urgente bisogno di investimenti e lavori di manutenzione. Abbiamo sostato in un isolato di vecchi appartamenti. “Questo è il vecchio quartiere ebraico; i miei nonni vivevano lassù”, ci ha detto, indicando un edificio. Non ho chiesto cos’era accaduto loro, né gli ho detto che due dei miei nonni venivano dalla Bielorussia, non molto lontano, a nord. Non sono stato sorpreso di scoprire che un uomo della sinistra ucraina fosse ebreo. Dieci anni dopo, trovo incredibile che lo sia il Presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky.
La rivolta di Majdan è avvenuta nel febbraio 2014. È stata una cosa tumultuosa e confusionaria dal punto di vista politico, provocata dal rifiuto del presidente filo-russo di firmare un accordo economico con l’Unione europea. Sicuramente c’entravano qualcosa gli ultranazionalisti che ci avevano infastidito due anni prima. Anche loro sostenevano la rivoluzione, nella speranza di creare uno stato autoritario; uno dei loro obiettivi era la messa al bando della lingua e della cultura della minoranza russa. Per contrasto, i nazionalisti russofoni dell’Ucraina orientale, che guardavano a Mosca per trovare sostegno, si opponevano alla rivoluzione affermando, tra le altre cose, che si trattava di una rivolta sponsorizzata dalla Nato e di un “colpo di stato sionista”. Non erano interessati all’indipendenza né a sviluppare qualche rapporto (di legami militari non se ne parlava nemmeno) con l’Occidente. Piuttosto, invocavano l’intervento dell’esercito russo; intervento che Putin stava già preparando; i soldati russi hanno poi preso il controllo della Crimea e, combattendo senza uniformi, hanno cominciato a promuovere la secessione dell’Ucraina orientale.
I giovani di sinistra incontrati nel 2012 erano stati, di questo sono certo, molto attivi nella rivolta di piazza Majdan, e (a giudicare dai reportage e dalle interviste dell’epoca) le loro fila si erano ingrossate. Non sono entrati a far parte di nessuno dei governi che si sono susseguiti, ma hanno rappresentato, se pur in piccolo, una forza del pluralismo, in quanto difensori dei diritti delle minoranze.
Nei mesi seguiti alla rivolta di Majdan, gli ucraini sono riusciti a mettere in piedi una seppur fragile e non scevra di difetti democrazia (come lo sono tutte), ma pur sempre una vera democrazia ucraina. Gli ultra-nazionalisti sono diventati una delle tante fazioni, senza mai assurgere a posizioni dominanti. Zelensky, nato nell’Ucraina orientale, di madrelingua russa, è stato eletto presidente nel 2019 con libere elezioni. Non è un uomo di sinistra, ma è un liberale -è bene ricordare, peraltro, che è stato uno di quelli che si sono opposti alle pressanti richieste di Donald Trump quando cercava informazioni che potessero danneggiare Joe Biden.
Oggi vedo questa invasione russa come un attacco ai giovani che scrivevano e pubblicavano la “Krytyka Polityczna”, quelli con cui avevo parlato dieci anni or sono. Certo, si tratta di un punto di vista eminentemente personale, ma in tempo di guerra è bene sapere chi siano i tuoi compagni. Penso anche a Zelensky come a un compagno, perché ha sempre difeso i diritti dei russofoni dell’Ucraina orientale, anche quando i soldati ucraini erano in guerra contro (alcuni) di loro. A dire la verità, l’Ucraina è in guerra ininterrottamente dal 2014 contro una controrivoluzione foraggiata da uno stato reazionario, una situazione peraltro non rara nella storia delle rivoluzioni. Ma la guerra iniziata pochi giorni fa con l’invasione russa su larga scala, e ora con soldati in uniforme, è molto diversa; è una sfida aperta all'indipendenza e alla democrazia ucraina. Ed è stata accompagnata dal movimento delle truppe russe attraverso la Bielorussia, non soltanto per invadere l’Ucraina da nord, ma anche per mettere in sicurezza il regime autoritario di Alexander Lukashenko, che giusto un anno fa ha scongiurato il rischio di una personale rivolta di Majdan. La guerra russa è stata quasi universalmente condannata, con “spiegazioni” e giustificazioni provenienti da tre tipologie di soggetti: i realisti politici, che credono nelle sfere di influenza e vogliono riconoscere alla Russia una propria sfera; la destra, che ammira i leader autoritari e considera Putin “uno di noi”; e infine, persone di sinistra che si dicono certe che gli Stati Uniti e la Nato debbano sempre essere gli unici “cattivi” della situazione. I tre gruppi hanno questo in comune: non stanno analizzando con abbastanza impegno la realtà di questa guerra.
La condanna di questa guerra è perlopiù fondata su una esatta interpretazione del diritto internazionale: la guerra russa è un attacco ingiustificato a un paese vicino, uno stato indipendente e sovrano. Pertanto è chiaramente un atto illegale. Inoltre -cosa ancora più importante- è un atto ingiusto, un crimine, non solo dal punto di vista legale, ma anche dal punto di vista morale. L’invasione russa è un atto che costringe persone comuni, e pacifiche, uomini e donne, a mettere a rischio le proprie vite, a combattere e a morire per il proprio paese. Apparentemente Putin era convinto che la maggioranza degli ucraini non sarebbe giunta a tanto -perché, come ha affermato, l’Ucraina non è un paese distinto dalla Russia; nel profondo, tutti gli ucraini sono russi, e questa guerra serviva a ricordarglielo. Ma la reazione sul campo degli ucraini, dalle strade di campagna alle vie delle città, ha dimostrato che Putin si sbagliava. L’Ucraina è a tutti gli effetti un paese; lo dimostra la volontà dei suoi cittadini di combattere per difenderlo. Costringere queste persone a combattere, ecco il crimine di questa guerra.
Ucraini con visioni politiche anche molto diverse oggi stanno combattendo fianco a fianco. Certo, ci sono anche gli ultranazionalisti; fanno parte della vita ucraina da troppo tempo. Ma ci sono anche persone come i ragazzi che ho incontrato nel 2012, e con loro molti altri, che combattono per il proprio paese e per la democrazia. E ce ne sono altrettanti che combattono perché credono in un’Ucraina -quella immaginata dal loro presidente- capace di accogliere tutti i suoi cittadini e di riconoscere i loro diritti. Non so come andrà a finire; a volte l’eroismo e la giustizia alla fine trionfano, ma talvolta non succede. Qualunque cosa accada, noi, a sinistra, dovremmo chiamare questo paese, i cui coraggiosi cittadini si sono dimostrati tanto valorosi, “la nostra Ucraina”, una democrazia di cui anche noi riconosciamo il valore..
(traduzione a cura di Stefano Ignone)
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L’invasione russa ha costretto persone pacifiche, gente comune, a rischiare la vita. In tanti oggi stanno combattendo per un’Ucraina democratica, accogliente e rispettosa dei diritti di tutti i suoi cittadini. L’incontro, nel 2012, con i giovani di sinistra di Kyiv. Di Michael Walzer.
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