Cari amici,
ormai sono trent’anni che frequento il Marocco e in tanti mi chiedono da dove venga questa passione per il paese più occidentale del Nord Africa. La verità è che me lo chiedo ancora anch’io. Non è facile capire e far luce sui meccanismi della seduzione che sono scattati in me e che continuano ad avere un ruolo preponderante nella mia vita.
Il successivo approdo, più di un decennio fa, a Porta Palazzo a Torino ha forse chiarito alcuni aspetti di questo legame. Questo quartiere di mercato, di scambi e di assoluta vitalità popolare, in questi ultimi anni è diventato un luogo in gran parte magrebino. Ha mantenuto, col contributo dei forti flussi migratori (che hanno portato Torino ad avere circa il 15% di residenti di origine straniera), una sua identità che lo rende un contesto specialissimo delle dinamiche cittadine, dove la povertà, dato di fatto duro da digerire, dialoga sapientemente con tutto il resto della città, nello scambio dei mercati, andando a creare un luogo di intenso transito e un quartiere di residenza attiva, dinamica, giovane e solidale. Tutto questo ovviamente tra mille contraddizioni. Contraddizioni che sono ben visibili pure in Marocco, paese giovane e dinamico, da sempre luogo scambi, dove circola davvero tanto denaro, in contrasto con la persistente povertà patita da una gran parte della popolazione.
A Porta Palazzo in tempi recentissimi e soprattutto in seguito alle decisioni prese dall’ultima amministrazione cittadina, pare si voglia far prevalere una visione diversa di quartiere, con l’arrivo tra l’altro di grandi investitori. Una visione che sembra volta alla negazione, all’occultamento, allo spostamento dei poveri, come rivela la recente scelta di barricare una parte del quartiere di Borgo Dora per impedire ai poveri mercanti di accamparsi e vendere durante il settimanale mercato delle pulci, il Balon. Mentre vi scrivo, la situazione è in evolvere, ma la volontà della sindaca e di questa amministrazione, di concerto con la prefettura, di dar seguito alle istanze dei commercianti che si sentivano scavalcati da questo scambio tra poveri, sembra chiara.
Il vuoto culturale è quello che fa più male. Il Marocco nel mio caso ha riempito un tale abisso di solitudine culturale, con la voglia di vivere dei suoi giovani abitanti, con la generosità dei poveri, le contraddizioni di una realtà in evoluzione, e comunque non privilegiata, rispetto al benessere ormai scontato cui ci si è abituati nelle province italiane...
Chiedo scusa per il tenore troppo personale di questa lettera. Da tempo avrei voluto rendervi partecipi di queste riflessioni e di questa mia esperienza dei luoghi.

Il Marocco è oggi un paese che, come tutte le realtà in transizione tra una situazione di povertà e tradizione culturale rigida e l’apertura a una visione moderna di società con al centro il tema dei diritti umani, sperimenta fatti paradossali, che fanno emergere la potenza di tale contraddizione. Come ho raccontato più volte, a fronte di un monarca che dichiara di volere modernizzare il paese, il sistema resta invischiato nelle pastoie della corruzione e dell’ingiustizia sociale, sfociando sempre più spesso nella negazione di fatto del diritto alla libertà d’espressione, con l’utilizzo addirittura dell’intimidazione grazie a un quadro legislativo ancora profondamente arcaico e facilmente manovrabile politicamente.
È il caso, tra gli altri, di Hajar Raissouni, la giovane giornalista del periodico islamista “Akhbar Al Yaum” e nipote di un influente ideologo del movimento conservatore islamista. La pesante condanna inflitta a lei, per aborto e relazione sessuale al di fuori dal matrimonio, al suo compagno, al personale medico della clinica dove sarebbe stato commesso il reato, è caduta come un macigno sul movimento portato avanti da numerosi intellettuali e dalle femministe marocchine che chiedevano, assieme alle organizzazioni internazionali e nazionali di difesa dei diritti umani, la liberazione immediata della giovane donna e degli altri imputati. Il sospetto che questa condanna sia una forma di pressione contro la libertà di espressione si unisce allo sdegno per l’utilizzo di mezzi spregiudicati e non leciti, quale l’esame clinico cui è stata forzatamente sottoposta la giornalista, definito da alcune militanti una sorta di stupro, insieme alla violazione della privacy dell’imputata. La lotta giudiziaria e politica della famiglia Raissouni e del movimento islamista, vistosamente oppresso dalla repressione giudiziaria dello stato, si unisce così -paradossalmente- alla lotta per l’emancipazione femminile e per l’affermazione di diritti sacrosanti, per lo più negati dalle tesi islamiste, come il diritto delle donne a disporre del proprio corpo senza dover subire violenza e umiliazione da parte di una legislazione arretrata sull’aborto. Una legislazione che lo stesso re ha chiesto più volte di modernizzare, aprendo spiragli che sembrano essersi chiusi nel processo giudiziario appena concluso. Un’unione di intenti, quella tra laici e islamisti, già sconfitta in passato, durante le primavere arabe in Marocco nel movimento “20 febbraio”, quando le forze popolari islamiste manifestavano insieme alla sinistra laica, probabilmente imborghesitasi. Quest’alleanza si ripropone oggi perché probabilmente sta proprio in questa contraddizione fondamentale, tra diritti umani e diritti economici, tra tradizione legata al popolo più povero e modernità portata avanti da quella che assomiglia sempre più a una élite economica, l’ostacolo fondamentale all’apertura di una nuova epoca di riforme sostanziali, di cui il paese avrebbe enorme bisogno.